A 42 anni e con all’attivo un oro Europeo, un argento ai mondiali, un bronzo olimpico, un poker di scudetti e una tripletta in Coppa Campioni, Fabio Bencivenga ha scelto di tornare in vasca ed indossare la calottona della Tgroup Arechi, squadra salernitana che mira alla permanenza in Serie A2. Per la seconda volta il campione di Capua ha deciso che non è ancora tempo di ritirarsi. Infatti, dopo essersi ritirato nel 2012, era ritornato a giocare nel 2015 per abbracciare il progetto dell’Aqavion, squadra di cui era stato l’allenatore per due anni.
Ma questo ritorno in vasca deve essere fonte di entusiasmo o presa di coscienza che qualcosa non sta funzionando nel sistema pallanuoto? “La notizia regala a primo impatto un entusiasmo cosmico, per chi come me, ha amato il Drago di Curti quando incantava il mondo della pallanuoto. Serietà, professionalità e quel guizzo vincente che l’hanno portato sul tetto del Mondo sia con la Nazionale che con i club. Poterlo riammirare è un’occasione meravigliosa sia per i più grandi che faranno un passo indietro nel tempo, che per i tifosi più piccoli che potranno imparare di tutto e di più”.
Ma è normale che a 42 anni, dopo 3 anni di inattività, una squadra di Serie A2 sia costretta a richiamare una vecchia gloria per aspirare alla permanenza nella categoria?
Non ci sono altri giocatori all’altezza di un progetto simile? L’esperienza di Bencivenga non poteva essere sfruttata avendolo come allenatore? Il lavoro sulle squadre giovanili non dovrebbe produrre un vivaio in grado di essere determinante in queste situazioni?
Parlando dell’uomo Bencivenga, è la mancanza del cloro o il bisogno di continuare a monetizzare che lo portano di nuovo a indossare la calottina? E’ difficile smettere di giocare a pallanuoto, per tutti. Per chi ha vinto di tutto e di piu’, ma anche per chi ha vissuto “una vita da mediano”.
Ma siamo sicuri che sia solo la voglia di non smettere mai, o questi campioni, in questo caso Bencivenga ma non è assolutamente un caso isolato, hanno bisogno di continuare a lavorare come giocatori perché non c’è stata la capacità di trasferimento di competenze su un’altra tipologia di lavoro? Colpa degli atleti o colpa delle società? Colpa di entrambi, probabilmente. Ma a metterci la faccia saranno sempre i giocatori, eternamente giovani, che continueranno a dare battaglia in acqua per gloria, per essere d’esempio, per soldi, per restare a galla, sperando che nessun dribbling di un giovane 15enne possa cancellare tutto ciò che di eroico si è fatto fino a quel momento nel mondo della pallanuoto.
di Eliana Acampora