“If you can dream it, you can do it”. Se puoi sognarlo puoi farlo. Walt Disney? No, Dries Mertens. Gol come quelli di “Ciro” in Lazio-Napoli non sono facili da segnare, ma non è neanche quello il punto. Il punto è che non sono facili neppure da pensare. Sei lì, a capo chino che insegui il pallone, il portiere ti anticipa e lo spazza – male – fuori dall’area. Lo vedi con la coda dell’occhio che sta rientrando in porta ma con quella stessa coda percepisci che c’è un solo angolo libero per scavalcarlo, lui e le leggi della fisica. In quel momento subentra l’esecuzione, che poi è tutto il resto. Bisogna beccarlo, quell’angolo che hai visto solo tu, bisogna trovare l’equilibrio giusto fra potenza e precisione sperando che nel frattempo non ti colpisca un asteroide. E no, Dries Mertens è ancora fra noi, non è stato schiacciato da nessun meteorite. Forse Strakosha, lui sì. Ma questi, tutto sommato, sono problemi suoi.
Dopo aver visto qualcosa di così stendhaliano, in quell’esecuzione assurda ma allo stesso tempo incredibilmente semplice se ti chiami Dries Mertens, in quell’istante non può che venire in mente un altro che rendeva possibile l’impossibile. Mertens ha minimizzato il paragone con Lui, con Maradona, da sgamatissimo “Ciro” quale ormai è diventato. Eppure lo ricorda, eccome se lo ricorda. D10S permettendo, in qualche modo questa prodezza fa rivivere ai napoletani emozioni che non pensavano di poter vivere mai più. E’ come quando assisti a un miracolo, una stigmata o una lacrima santa. Non è Lui l’artefice, ma ne percepisci la presenza come mai prima d’allora. Allora ti senti testimone di qualcosa e vai a ritroso, ripercorrendo tutti i sintomi di specialità che quella persona ha potuto lasciar intravedere in passato. Lo ricorderete, quando è arrivato Dries Mertens. Nessun proclama iniziale ma un feeling che si è instaurato praticamente da subito con l’allenatore, con i compagni e soprattutto con città e tifosi. Mertens era il classico ‘spacca-partite’, quello che anche in 10 minuti cambiava volto al match. Entrava sempre con quel sorriso sulle labbra, con quella sicurezza di sé che spesso e volentieri è stata molto ben riposta. Tanti gol, tanto spettacolo, pure entrando a fine gara. Questione di attitude, di convinzione dei propri mezzi e di poterli imporre, senza fretta e senza squallide competizioni interne. Dries era sicuro di ciò che sapeva fare e sapeva che prima o poi l’avrebbe dimostrato, senza dover sgomitare come tanti altri, insicuri e quindi un po’ mediocri. E’ rimasto lì, buono buono, aspettando il suo momento. Poi Sarri, la necessità che diventa virtù, la metamorfosi e la consacrazione, a 30 anni suonati, ma è storia talmente recente che è perfino superfluo raccontarla. Prima dribblava e concludeva con semplicità, ora la sicurezza è cresciuta e con essa anche la complessità delle soluzioni a disposizione. E sì, anche un po’ di sana competitività agonistica, anche se per ora con Milik non c’è proprio storia, con lui come con nessun altro. Ma è un processo che prima o poi doveva arrivare a compimento. Mertens è nato 4 giorni prima di Quel Giorno, è nato il 6 maggio 1987. Due generazioni a cavallo l’una dell’altra, trent’anni per far sì che il nuovo corso collimasse col vecchio. Dopo 30 anni Lui è sempre con noi: è in ogni bel gol, in ogni record frantumato, in ogni sogno più recondito che diventa anche solo plausibile. Nel record (arriva, abbiate Fede) di Marek, nelle invenzioni di Dries, negli assist geniali di Lorenzo, nella straordinaria concretezza creativa di Josè. In tutto c’è Lui, in tutto c’è un sogno ancestrale che improvvisamente può diventare realtà. E ci godremo questa prodezza come tante altre. Se possiamo sognarlo, possiamo farlo. Parola di Walt Disney. Pardon, parola di Dries Mertens.
di Antonio Papa (Facebook @ntoniopa)
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