Ad un certo punto ho cambiato canale. La premiazione l’ho lasciata ai gobbi e a tutti quelli che sbavavano dietro quello straordinario Progetto chiamato Juve. Non ho guardato la premiazione della finale di Tim Cup. A dire il vero ho abbandonato l’Olimpico subito dopo il raddoppio di Bonucci. Calmi con la facile ironia: non stavo rosicando. Non me ne fregava niente che i bianconeri si stessero avviando verso l’ennesimo trofeo. In realtà avevo ancora nella testa la Juve di tre giorni prima, che nello stesso stadio si impossessava del destino degli azzurri. Facendone ciò che voleva. Attenzione ancora, please: non mi ha disturbato la prestazione da schiaffi dei bianconeri, fuggo dalle facili tentazioni di complottismo e menate simili. Certo, che alla Juve faccia più comodo mettere i bastoni tra le ruote alla rampante squadra di Sarri – con la Roma che si troverà a gestire problemi di bilancio e la rifondazione post Totti – può essere anche ipotizzabile. Ma ciò che mi ha più stizzito è proprio la condizione di dipendenza da terzi in cui si è ficcato il Napoli. Un casino che ha origine in date e luoghi ben definiti: Sassuolo, Pescara, Genova. E non solo.
Napoli, ecco cosa occorre ancora per il salto di qualità
Ma il punto non è questo. Le variabili nel calcio sono una diversa declinazione degli episodi, del rigore non concesso, del salvataggio sulla linea, del fuorigioco non rilevato. Della giornata di luna storta in cui può cadere la squadra. Sono invece le premesse (che stanno già condizionando le prospettive) l’elemento che non mi convince. Il refrain lo si sente ovunque: il Napoli, per vincere, dovrà augurarsi che le big, Juve in primis, facciano errori. Che sbaglino.
Ecco, questo è il concetto che proprio non riesco a digerire. Non mi piace. Non credo sia il punto da cui ripartire per la prossima stagione.
A questo punto l’opinionista medio tirerebbe fuori l’asso nella manica: il club non ha i fatturati delle superpotenze per pianificare un ciclo. Per puntare a qualche scudetto di fila e magari ad un paio di Champions. Ma, state tranquilli, per fortuna il raziocinio mi aiuta ancora. Sono consapevole del divario economico e delle relative conseguenze. Tuttavia, nel calcio, spesso gli intenti, la mentalità e l’organizzazione sono tutto. Quindi più che legare il destino della squadra alla vecchiaia di Sarri piuttosto che alle news Napoli sulle paturnie della moglie di Mertens, mi concentrerei su una riflessione: la Juve è sopravvissuta a Conte. Ai Pirlo, ai Pogba. E sopravvivrà, continuando a vincere, anche ad Allegri, ai BuffonBonucciBarzagliChiellini. Ai Dybala e Higuain. Continuerà a costruire i successi sulla preghierina che impone ai suoi tesserati prima della nanna: “vincere è l’unica cosa che conta”. Sempre e contro chiunque, come se non ci fosse un domani.
Non sono quindi solo i fatturati che possono fare la differenza, ma una cultura della mentalità che vada a braccetto con la costruzione di una struttura capillare, dove ogni componente aziendale faccia riferimento a determinati ruoli e professionalità. In cui nulla sia lasciato al caso. Se è vero che in 13 anni di gestione De Laurentiis il valore del club è decuplicato, è altrettanto vero che l’epoca delle gestioni da bottega è finito da un pezzo. Col tempo, l’uomo solo al comando non basterà più. Almeno per i fatturati.
di Marcello Mastice (twitter: @marcellomastice)