Dalla C alla Champions. Sarebbe stato il titolo perfetto per la sua autobiografia, ma qualcuno più scaltro aveva già in mente di raccontare l’epopea azzurra degli ultimi tre lustri con un romanzo dal medesimo titolo. Dazio da pagare, se non si ha come obiettivo quello di finire tra le pagine di un libro. Tuttavia, se la sua vita calcistica diventasse un romanzo, il proprio racconto comincerebbe in una mattina del gennaio 2005. Il telefono che squilla, la voce di Pierpaolo Marino che suggerisce di preparare in fretta la valigia e recarsi a Castelvolturno per cominciare una nuova avventura, quella in maglia azzurra. Edi Reja ha bisogno non di un difensore esperto, ma di qualcuno che senta in modo viscerale ogni singola partita. Per raggiungere i play off e vincerli la tecnica non è sufficiente, servono motivazioni. E uno che ha sempre sognato la maglia azzurra ne ha da vendere. Ed ecco che Gianluca Grava, classe 1977, approda al Napoli per qualche migliaio di euro e con l’intenzione di ritornare in alto con la sua squadra del cuore.
Mette a disposizione di Reja quell’esperienza maturata sui campi di periferia, quella in cui l’erba ingiallisce per l’incuria e gli spalti sono fatti di cemento. Ci aggiunge l’esperienza di chi sa battibeccare coi marpioni di categoria: quelli, per intenderci, che in caso di gol al Napoli, riescono a strappare al proprio presidente un anno in più d’ingaggio. Il resto è corsa, grinta, una tecnica base che proprio non guasta e le gambe che non tremano per l’emozione quando si emerge dal sottopassaggio del San Paolo. Alla fine di maggio del 2005 è tra i protagonisti di una delusione chiamata play off. L’Avellino era più attrezzato, più cattivo, o forse aveva dalla sua solo più motivazioni. «Bravi tutti» dice de Laurentiis, col suo fare presidenziale. «Riproviamoci a settembre» sussurra Reja con quella cadenza friulana che stona con le vocali aperte e le “c” marcate di chi è cresciuto a pochi passi dalle sponde del Garigliano. L’anno dopo è la cronaca di un successo annunciato. È un Napoli che partecipa al campionato di Lega Pro solo per le statistiche. È una squadra che, dopo la terza giornata, inizia a programmare le trasferte del campionato successivo in Serie B. Un anno dopo, quel Napoli non s’aspetta la Juventus, un Genoa agguerrito come non mai e decine di altre squadre pronte a portar via punti preziosi per la rincorsa alla Serie A. Quella che il Napoli ottiene perché tale storia era già stata scritta, senza un titolo da best seller, ma solo con l’obbligo morale di ritrovare tre squadre leggendarie nella categoria più prestigiosa. Gianluca è ancora lì. Corre, anticipa, abbassa il capo quando va in panchina, ma solo perché, uno così, ha bisogno di sentire il campo ogni domenica e non solo quando la partita sta per finire e si getta nella mischia il duttile difensore con esperienza. Quella che gli consente, contro un modesto Lecce allo stadio San Paolo, di fermare un pallone a pochi centimetri dalla linea bianca e far ripartire un’azione che Cavani concluderà con un gol da ricordare per gli anni a venire. E per gli anni a venire, Gianluca Grava classe 1977, ricorderà quel 7 dicembre del 2011.
Il Napoli in tenuta grigia tiene testa al Villareal, nel girone di Champions più tosto tra quelli sorteggiati. Il Bayern, il Manchester City e quei sottomarini gialli che, appena un anno prima, ci avevano rispedito a casa dall’Europa League. Ma questa è un’altra storia, e in questo capitolo c’è il tabellone di uno stadio che recita 0-2: significa vittoria in trasferta e ottavi di finale a un passo. Mazzarri si gioca l’ultimo cambio: fuori Zuniga, dentro Gianluca Grava. Proprio lui, quel pretoriano che, silenziosamente, entra nella storia. Unico giocatore, dell’era de Laurentiis, ad aver giocato in tutte le competizioni di qualsivoglia categoria. Un dato buono solo per le statistiche, obietterà qualcuno. Ma qualcun altro, dall’animo più romantico, racconterà l’apice della sua carriera con la locuzione latina “per aspera ad astra”. Pure questo sarebbe un ottimo titolo per un’autobiografia.
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