«Ho vinto io la Supercoppa». Pronuncia questa frase molto spesso. Seduto sui comodi sedili imbottiti di una panchina, mentre osserva i compagni rincorrere un pallone e il portiere titolare ricevere gli applausi e il sostegno della curva. «Ho vinto io la Supercoppa». Ripete spesso l’espressione e più d’uno comincia a ridere. «Tu?» sembrano dire certi sorrisi indagatori, «Con quell’espressione sempre triste? Tu diventato ormai parte dell’arredamento dello stadio, avresti vinto una Supercoppa? E magari l’avresti vinta contro la Juventus». «Giusto» risponde lui. «Contro la Juve, ai calci di rigore, dopo una partita epica». Afferma il vero quel ragazzo con le spalle larghe, i capelli a spazzola e gli occhi sinceri. Quelli con cui ritorna a una partita di due anni prima.
Il clima a Doha è mite, nonostante il calendario segni 22 dicembre. Napoli e Juventus concludono l’anno solare con la finale di Supercoppa italiana. I bianconeri hanno cambiato allenatore, via Conte dentro Allegri, ma non gli obiettivi: vincere, sempre e comunque. Il Napoli, invece, dopo aver salutato anzitempo la Champions League, tenta di concludere l’anno con un altro trofeo da aggiungere a una bacheca nuova di zecca in cui già fanno bella mostra le due Coppa Italia vinte nelle ultime tre edizioni. Mister Benitez deve accontentarsi di un mercato low cost e di rivalutare quel che ha in casa. A cominciare dal portiere: via Reina, dentro Rafael, il ragazzone brasiliano che sembra un uomo fatto ma che, appena apre bocca, ti dimostra la fragilità di chi ha da poco superato i vent’anni. A questo giovanotto brasiliano con passaporto made in Portugal viene chiesto di crescere in fretta e non far rimpiangere il leader maximo della vecchia retroguardia. Quel portiere bravo coi piedi e a fare da collante dentro allo spogliatoio. Duro compito per Rafael che, tre giorni prima di Natale, si trova di fronte Tevez, Llorente e quell’armata di maglie bianconere pronte a vincere. A ogni gol dell’Apache, corrisponde una zampata del Pipita. Alla fine è 2-2 e tocca ai rigori decidere chi diventerà l’idolo degli emirati.
Jorginho sbaglia il primo, ma Tevez non gli è da meno. Di lì in poi, dieci rigori, cinque a testa, senza commettere errori. Un’oltranza cui Mertens sta per mettere fine calciando malissimo. Calcia bene Chiellini, ma Rafael gli nega la gioia di correre ad abbracciare i compagni. E fa altrettanto quando il tiro di Padoin s’infrange contro la sua gigantesca mano aperta. Di lì in poi è cronaca che si trasforma in fiaba. Le ginocchia poggiate al suolo, le mani al cielo a ringraziare Dio e chissà quale divinità calcistica per averlo reso protagonista di quel momento. La Juve cade ancora quando c’è di fronte la maglia azzurra. O meglio quella verde di quel portiere venuto dal Brasile, cui è stato chiesto di non far rimpiangere Reina. «Fosse facile» si dicono in molti. E fa lo stesso Rafael che poi, concentrandosi, rivive quella partita attimo per attimo e sorride. Sa che un giorno tornerà a vivere il campo da protagonista. Forse lontano dalla caotica Napoli, magari in un campionato in cui dovrà imparare un’altra lingua. E magari dopo i convenevoli imparerà a dire «Ho vinto io la Supercoppa».