a cura di Paquito Catanzaro (Twitter: @Pizzaballa81)
Il nome è quello: Jorge Luiz Frello Filho, però preferisco che mi chiamiate Jorginho. Un po’ per praticità, un po’ perché, in questo modo, metto in risalto il mio DNA brasiliano.
Mi sento italiano, è vero. L’ho giurato davanti agli articoli della costituzione, pensando ai miei trisavoli veneti, partiti per il Sudamerica chissà quanti anni fa. Secoli vecchi, ingialliti in qualche fotografia che i miei parenti italiani hanno conservato. E magari conserveranno, un giorno, pure le foto che mi ritraggono in mezzo al campo. Magari con la maglia del Verona, o quella del Sassuolo. Ragazzino imberbe che sognava di giocare in serie A. Magari in un grande club, magari in una squadra in cui un sudamericano mezzo italiano si sentisse a proprio agio.
Certo, penserete voi attenti lettori, non esiste città migliore di Napoli per un sudamericano. E Napoli fu, in quel gennaio del 2014 quando, con un biglietto di sola andata, lasciai Verona e le sue leggende sull’amore tra Montecchi e Capuleti per atterrare a Napoli, città di miti fuori e dentro il campo da calcio.
Quello in cui mi muovo col passo del lupo solitario: lento ma deciso, osservando quel rettangolo di gioco e immaginando come si muoveranno i miei compagni. Non è illusione, né tentar di fare il visionario. La chiamano: intelligenza tattica. Processo che non saprei spiegare, se non lanciando il pallone proprio dove desidera Higuain oppure fingendo un’apertura su Hamsik, sapendo in anticipo che Insigne si smarcherà per ricevere un mio passaggio.
Starete pensando, cari attenti lettori, che questo ragazzo poco più che ventenne ha le idee chiare, ma forse blatera un po’ troppo. Mi spiace contraddirvi, o voi che leggete. La mia non è boria, né una sequenza di frasi fatte da sciorinare ai giornalisti; è solo la consapevolezza che nel calcio, come nella vita, ai muscoli devi aggiungere il cervello. Essere umili, come richiede mister Sarri, ma con la mente proiettata ai successi futuri, con cui gli allenatori aggiornano i curricula e i calciatori fanno sfoggio sulle pagine di qualche enciclopedia virtuale.
Concludo, pazienti lettori di questa mia breve autobiografia, con il desiderio di vestire un’altra maglia azzurra: quella di una nazionale cui appartengo dal giorno in cui l’Italia mi ha accolto. Una seconda pelle, prestigiosa quanto quella azzurra che mi porto dentro, in un DNA italo brasiliano con sfumature di partenopeo.