a cura di Paquito Catanzaro (Twitter: @Pizzaballa81)
Fossi stato solo un po’ più alto oggi farei il fotomodello, o magari mi sarei dato al cinema come molti miei colleghi che, appese le scarpe al chiodo, hanno cercato una seconda giovinezza di fronte alla macchina da presa.
Invece il destino mi ha voluto statisticamente nella norma, per i nati nel 1967, e perciò destinato al campo da calcio. Non che mi lamenti, per carità, solo che avrei voluto provare l’ebbrezza di pronunciare un «Al mio segnale, scatenate l’inferno» oppure «Noi avremo sempre Parigi», con tanto di trench e cappello calato sulla fronte.
Dimenticavo, mi chiamo Jonas Thern. L’anno di nascita ormai lo conoscete e avrete senz’altro intuito che sono un calciatore. Pardon, sono stato un calciatore. Centrocampista dai piedi buoni, dotato di resistenza e cervello pulsante per tutti i 90 minuti.
Gavetta in Svezia, trafila in Portogallo nel glorioso Benfica di inizio anni ’90, poi quel trasferimento in Italia. Napoli, antitesi perfetta per chi come me è cresciuto nel freddo di una cittadina svedese con quindicimila anime e il sole pure a mezzanotte. A Napoli il sole non manca mai, così come non manca il desiderio di ritornare grandi, chiudendo quelle ferite che dal marzo 1991 proprio non riescono a sanarsi. Ferlaino stacca un assegno di 5 miliardi di lire per mettermi a disposizione di Claudio Ranieri, affascinante allenatore che, come me, potrebbe darsi al cinema. Ma lui preferisce restare a bordo campo a impartire ordini, sgridare chi già si sente un fuoriclasse e ricordare a tutti che siamo il Napoli e non una squadretta di periferia.
Il lancio illuminante, la ricerca perenne di un contrasto e la resistenza sono le doti che metto al servizio di una squadra in cui sono in molti a cantare e pochi a portare la croce. Ma non mi tiro indietro, specie in inverno quando gli altri calciatori si sfregano le mani per provare un po’ di calore e io gioco con le maniche corte e senza scaldamuscoli, perché dalle mie parti il freddo ghiaccia il corpo ma non lo spirito né la mente.
Intanto, mentre la mia parabola azzurra arriva all’apice, faccio breccia nel cuore dei napoletani e strappo più di un sorriso di ammirazione tra quelle tifose che vedono in me non solo un calciatore dai piedi buoni, ma pure uno con cui rifarsi gli occhi e immaginare un tradimento al marito tifoso.
Due anni con la maglia azzurra, quasi 50 presenze e due allenatori con la fama di belli. Marcello Lippi è identico a Paul Newman e, col sigaro che gli pende dalle labbra, mi raccomanda di far crescere questa squadra perché si tornerà grandi. Peccato che a giugno ci si dica addio, lui a Torino per far grande la Juventus, io a Roma per far tornare competitivi i giallorossi; e si dica addio a Napoli, quella città che mi elesse idolo. Fossi stato solo un po’ più alto magari sarei divenuto pure divo.
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