PAQUIPEDIA – Fabio Quagliarella: fede, denari e tradimenti con un pizzico di follia

paquito

 

L’entrata in scena potrei farla vestito completamente di nero. Oppure con addosso una tunica bianca e un drappo rosso all’altezza della vita. Magari è anacronistico come abbigliamento, ma da un senso di antico, d’immagine vista in qualche museo o su un libro di religione.

Una volta giunto in proscenio, un faro color ghiaccio, illuminerà l’intera figura, lasciando il volto leggermente in penombra. Espediente necessario per disorientare gli spettatori e non far comprendere loro chi è che parlerà. Non ancora per lo meno perché, allo sfumare della musica, reciterò la mia prima battuta.

«Quoque tu Fabio, fili mi» dirò con tono enfatico, ricordando gli attori del primo novecento. Quelli che senza profferir battute, riuscivano a incantare gli spettatori coi loro volti incipriati e con quelle espressioni che sembravano rubate a qualche istantanea in bianco e nero.

Allora, creato il giusto feeling col pubblico, racconterò la mia storia. La storia di un tradimento, degna di un Bruto che ammazza Giulio Cesare, d’un Caino che non riflette troppo nel trafiggere Abele oppure Giuda Iscariota che, per trenta denari appena, vende il proprio Cristo. Quest’ultima versione è per me la più convincente. Per ragioni di fede, ma soprattutto perché il vile denaro avrà in questa storia un ruolo determinante. Più o meno come il mio, centravanti con licenza d’incantare i tifosi e tramortire le difese avversari, con reti mai banali, perché un calciatore per prima cosa se ne infischia della logica e calcia pure da 50 metri se il portiere, proprio in quell’istante, segue il volo di una farfalla lungo l’area di rigore.

A me il compito di generare un terremoto, o forse solo la breve ma intensa scossa tellurica che segue l’urlo belluino dei tifosi allo stadio. L’ho fatto a Genova, a Udine, per poco non mi riusciva allo stadio San Paolo. Quel tempio del dio pallone, in cui le gambe cominciano a tremare già dal sottopassaggio. Due gol al mio debutto contro il Livono, e quel colpo da centrocampo che, se fosse finita dentro, sarei finito nei libri di storia del calcio e ricordato per sempre dai tifosi azzurri.

Tuttavia, un pizzico d’eternità, me lo sono conquistato lo stesso. Non di certo per un campionato più che dignitoso, con 11 gol fatti e quel sesto posto che ci riportava in Europa dalla porta principale. A scolpire il mio nome nella mente delle future generazioni è quella firma, in basso a destra del contratto che mi legherà, a partire dal 27 agosto 2010, alla Juventus.

No, non state sbagliando. Rileggete il rigo precedente mille volte, fatelo a voce alta oppure bisbigliando, non cambierà la forma, né il contenuto. La Juve, l’odiata Vecchia Signora bianconera, diventa la mia squadra. Un colpo di teatro che nessuno si sarebbe aspettato. Non lo sceicco proprietario di un club russo che a tutti i costi mi voleva prendere; non Mazzarri, convinto di trovarsi in panchina un vice Cavani con tutti i crismi; non quegli amici della natia Castellammare con cui parlavo del Napoli un giorno sì e l’altro pure.

Cala il sipario sulla mia storia azzurra, tra fischi, improperi e quella parola ripetuta un numero sconsiderato di volte: traditore.

Fabio Quagliarella, come Giuda Iscariota, mette da parte il cuore per vile denaro. Denaro che non finirà certo dentro le mie tasche, ma in una casella di un file di excel con cui aggiornare le entrate del calcio Napoli.

A questo punto, esco di scena anch’io, scorgendo per l’ultima volta questo sipario che ripropone la mole antonelliana e il cielo grigio che colora Torino. Prima quella bianconera, poi quella granata.

Non ve lo sareste aspettati, vero, che Fabio Quagliarella tradisse anche la Juve e lo facesse con la squadra che, più di tutte, le contende il blasone. Quel Toro mai domo cui la storia ha regalato momenti poetici e un finale epico.

Io mi accontento di un applauso dal fondo della sala. Magari di un nostalgico che, ripensando alla mia unica stagione azzurra, ripenserà a quel tiro da metà campo. Fosse entrata in rete, sarebbe venuto giù lo stadio e, per un attimo appena, m’avrebbe accostato al Dio pallone, non a un semplice discepolo.

 

 

a cura di Paquito Catanzaro (Twitter: @Pizzaballa81)

 

 

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