a cura di Paquito Catanzaro (Twitter: @Pizzaballa81)
Chi ha paura dell’uomo nero? Lui no, senza alcun dubbio. Perché un ragazzone di novanta chili, distribuiti lungo centonovantacinque centimetri d’altezza, difficilmente teme un avversario, indipendentemente dalla questione cromatica.
Inoltre lui, Kalidou Koulibaly, ha scelto di giocare difensore centrale, uno di quei ruoli che, dalla notte dei tempi, coincidono con un solo precetto: fermare l’avversario.
Per farlo si può ricorrere a scivolate, anticipi di testa, spallate o qualunque altro escamotage venga in mente nel momento del bisogno, sperando sempre che l’arbitro volga lo sguardo altrove quando i tacchetti centrano in pieno una caviglia, oppure un pallone finisce contro un braccio proprio nel mezzo dell’area di rigore.
Non ha paura di nessuno Kalidou Koulibaly, o forse solo di se stesso. Di quei limiti che diventano evidenti quando il pubblico rumoreggia e il mister scuote il capo a bordo campo immaginando già come ridisegnare la difesa nella partita successiva.
E allora si impreca sottovoce, si fa appello alla scaramanzia del paese d’origine, magari ricorrendo a qualche santo protettore, pur di ritrovare la giusta concentrazione e giocare come Thuram, Cannavaro, Stam o chissà quale altro idolo calcistico della prima giovinezza.
E magari succede per davvero che Kalidou Koulibaly diventi, un giorno, l’idolo di nuove generazioni, che scenderanno nei campetti di periferia immaginandosi come il centrale con la maglia azzurra e il volto color dell’ebano. Ai ragazzi che amano il calcio è concesso questo e altro. Sognare di giocare in un campionato del mondo, o forse solo una finale di Supercoppa Italiana in cui ti tocca calciare dal dischetto un rigore nella sequenza a oltranza. E di fronte ti ritrovi Gigi Buffon, non l’amico del cuore con cui tiravi i primi calci in un Senegal di inizio anni ’90.
È allora che vien fuori lo spirito del leader futuro, l’animus pugnandi di un ragazzo alto quanto un pioppo e resistente ai contrasti come lo scoglio che argina l’oceano. Un ragazzo che calcia senza star lì troppo a pensare a quel che succederà dopo. All’improperio in un dialetto partenopeo che ancora mastichi pochi, oppure l’ovazione al calciatore e al santo che ne ha guidato il piede. E finisce che, nell’anno del debutto, ti ritrovi una coppa in bacheca a fare spazio tra le presenze da titolare e la prospettiva di diventare, un giorno, il punto di riferimento di un’intera difesa.
Quella che adesso, lui, Kalidou Koulibaly regola col piglio severo di chi da grande vuol fare il calciatore. Talvolta gioca bene e qualche volta sbaglia. Ma in quel caso vien da chiedersi: chissà quanti errori avrà commesso Leonardo prima di pennellare la Monnalisa.