SHOWTIME – Napoli vittima di un limitato ventaglio d’emozioni

inside out

Se a livello globale Pete Docter è riuscito a venir fuori dall’ombra di Lasseter con Monsters & Co, è con Up che si è guadagnato le tanto agognate stellette all’interno della Pixar. E’ con quella storia straziante ed esilarante del 2009 che ha sfoderato tutto il suo talento. Ovvio dunque che gli amanti delle grandi pellicole d’animazione attendessero con ansia il suo ritorno sul grande schermo. Dopo ben sei anni abbiamo avuto Inside Out, in questi giorni nei cinema italiani.

Stavolta però Docter fa un’evidente scelta, ovvero abbandonare la pista Toy Story (cui prese parte alla sceneggiatura), proseguita poi con Up. Si tratta di una pista che consente di mescolare sapientemente avventura e riflessione, proponendo un film che sia equilibratamente sia per bambini che per adulti. Inside Out però è totalmente differente e, pur essendo già considerato a tutti gli effetti un capolavoro Pixar, ha un evidente limite, rappresentato dalla palese impossibilità dei più piccoli di goderne a pieno.

La pellicola tenta infatti di rappresentare attraverso gli occhi di una bambina il doloroso cammino che accomuna ognuno di noi verso la comprensione di cosa sia un essere umano. In maniera meno “volgare” rispetto a quanto fece Woody Allen anni fa, abbiamo la possibilità di sbirciare nel centro di controllo delle emozioni di Riley, ferma sul baratro dell’adolescenza e pronta a capire che per poter crescere davvero, parte dell’infanzia dovrà essere sacrificata, ma soprattutto che la macchina umana è complessa e colma di sfumature, al punto che la tristezza, per quanto temuta, può essere veicolo di una maturazione necessaria.

Con il San Paolo che contro la Lazio sarà ancora una volta mezzo vacante, è sempre più chiaro come il tifo azzurro sia rimasto vittima di una sorta di regressione umorale, la stessa in fondo che si ritrova a vivere suo malgrado Riley. Gioia ha ormai abbandonato la sala controllo, lasciando le redini del comando a Disgusto. Tutto ciò che riguarda il Napoli è deprecabile e, guidato dal coro dei social, lo stuolo del tifo partenopeo esprime in coro e senza un pensiero proprio la stessa considerazione.

Distruggere un tecnico alla terza giornata di campionato è indice di un pregiudizio radicato, che si parli di me o di Diego Maradona. Sognare la Premier, con i suoi progetti e strutture, e ridicolizzare un allenatore di caratura internazionale è invece sintomo di profonda ipocrisia. Sarri, per bocca di Diego, è diventato zio Maurizio, che ha esordito in Europa con una straripante vittoria, relegata immediatamente a successo contro una misera squadra. Un tempo si ripeteva l’espressione: “Al di là del risultato”, ormai impressa nella memoria soltanto di una minima parte di supporter, forse proprio di coloro che allo stadio ancora ci vanno, e anzi esultano per l’assenza di quella fetta che troppo spesso non ragiona e lascia parlare la pancia.

Contro il Brugge Albiol è stato applaudito da inizio gara, perché chi si ama si supporta, e se si tifa davvero Napoli si dovrebbe, per logica, “amare” i propri calciatori. Massacrare chi sta a terra non è mai una scelta saggia, ma a causa della regressione di cui sopra per molti è impossibile provare nient’altro se non profondo disprezzo.

Provare rabbia è normale, ma limitare il nostro ventaglio d’emozioni a 2-3 soltanto vuol dire umiliare se stessi, limitando quella splendida macchina che è l’essere umano. E’ così che ci si trasforma in urlatori dal pensiero univoco, privi d’analisi propria e soprattutto di quella gioia per il nostro gioco preferito, che dovrebbe restare tale, un gioco, e in quanto tale non è in grado di dissolvere le ansie e frustrazioni che troppo spesso si mescolano al tifo, tingendolo d’amara delusione.

di Luca Incoronato (Twitter: @_n3ssuno_)

 

 

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