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PAQUIPEDIA – Il 26 settembre del 2004 (quando il Napoli divenne Fenice)

 

di Paquito Catanzaro (Twitter: @Pizzaballa81)

Ventisei settembre duemilaquattro. Di certo non finirà negli almanacchi questa data. O forse si. Perché in fondo quella domenica una storia è stata scritta comunque. Forse non con la penna stilografica dei tempi d’oro e nemmeno con l’inchiostro indelebile di quel dieci maggio millenovecentottantasette. Eppure, quel giorno merita di essere raccontato. A cominciare dall’avversario. Il Cittadella. Una squadra che, quando ti trovavi in mano lo scudetto delle figurine, ti veniva da ridere. E ridevi pure quando guardavi la classifica, trovando il Cittadella sempre in fondo, a sgomitare con altre provinciali per non fare la fine della Cremonese, della Reggiana o di altre squadrette di provincia che vivevano il pallone come il passatempo domenicale.

Il Cittadella era arrivato al San Paolo col timore di chi affronta la prima della classe, ma pure col coraggio di chi non vuol trascorrere la domenica da comparsa. Dentro il kolossal “Davide contro Golia” vuol far la parte di Davide, piccolo, ardimentoso e con una cazzimma che tira giù i giganti.

Quel Napoli Soccer, con la maglia aderente stile Euro 2000 e la enne blu in alto a sinistra, sembrava tutto fuorché una squadra. Calciatori arrivati alla spicciolata, palloni recuperati dai portabagagli, promettenti campioni dei settori giovanili di serie A e qualche vecchia gloria in cerca di riscatto, in un campionato senza stress e senza troppe pretese.

In porta c’era Belardi. Sì, proprio lui. Quello che con la maglia della Reggina aveva parato un rigore a Shevchenko, ma che teneva sulla coscienza pure una decina di tifosi della Turris che, a seguito di una sua papera nel derby col Savoia, pensarono bene di invadere il campo e picchiare chiunque fosse a portata di mano, di cinghia o asta di bandiera.

Quattro minuti e il Cittadella è già in vantaggio. In panchina Ventura, non Simona ma il suo omonimo Giampiero, ha l’espressione di chi pensa che quell’incarico era meglio non accettarlo. Che forse era il caso di aspettare ancora qualche mese. Magari un Cagliari, un Brescia o un Vicenza avevano bisogno di un traghettatore e almeno per sei mesi il conto in banca non finiva in rosso. E invece la C1, il progetto vincente, il presidente pronto a metter mani al portafogli e il direttore sportivo Marino che ripeteva «Mister, porti pazienza fino a Natale, che con i soldi del cinepanettone rifaccio il look a questa squadra».

Il Napoli Soccer reagisce, in poco più di mezz’ora fa tre gol e dona a tutti l’illusione che quel campionato in serie C1 sarà soltanto una formalità. E invece il Cittadella di gol ne fa altri due e indica al Napoli Soccer la direzione per il paradiso. Sempre dritto, in fondo al corridoio c’è una rampa di scale. Cominciate a salire.

Vi chiederete, a ragione, perché mai ricordare una data così anonima? Un Napoli – Cittadella di undici anni fa finito 3-3? Un pareggio, in casa, col Cittadella che, tra l’altro, ha il nome di un autogrill?

La spiegazione è semplice. Senza quel pari in casa, il 26 settembre 2004, il primo di un Napoli Calcio nuovo di zecca, non ci sarebbero state altre storie. Dimenticate i rigori con la Juve in Coppa Italia. Scordatevi Calaiò che fa 18 reti. Cancellate dalle cronache il pari di Marassi, con Napoli e Genoa che tornano tra i grandi.

Omettete Paolo Cannavaro, Gargano e pure Hamsik, ancora coi capelli a spazzola e nello sguardo la grinta del futuro capitano. Cancellerete, senza troppa sofferenza, Hoffer e pure Capparella che entra in campo, a san Siro, contro il Milan; però senza quel pareggio, 3-3 col Cittadella, Mazzarri non schierava Zuniga contro l’Inter e l’anno dopo, l’inno della Champions League restava solo un urlo per le tifoserie altrui.
E invece, hanno tremato in tanti. Schweinsteiger, Balotelli, Pepito Rossi e Di Matteo che solo a Stamford Bridge si dimenticò di quei sessantamila che, pur stando seduti, mettevano paura.

Aggiungete agli aneddoti futuri: el Matador Cavani, poi Insigne, poi il Pipita Higuain. Le lacrime di Lavezzi all’Olimpico di Roma, De Sanctis che va via e dice “Grazie a tutti”. Mazzarri che tradisce e Rafa Benitez che, a pensarci bene, ha lasciato senz’altro un buon ricordo nel cuore di qualcuno.

In fondo, di questa squadra ci si innamora in fretta. E non la si lascia più. Nella gioia, nel dolore, in salute e in qualche malattia di fegato che si becca quando si sprecano punti in casa contro il Parma oppure Aronica si esibisce in qualche improvvido retropassaggio che, solo a ripensarci, le transaminasi salgono a duemila.

Senza quel Napoli – Cittadella, di quella storia meravigliosa, fatta di scudetti, Coppa Uefa, di divinità discese in terra per accarezzare palloni col sinistro e campioni d’ogni genere e razza, non resterebbe che un lontano ricordo. Conclusasi col Napoli di Naldi, tra delusioni in campo e offese alla grammatica italiana.
Ma quello era un passaggio. Una diapositiva da buttare nel fuoco. Ecco, a proposito di fuoco. Pensandoci, ritorna alla mente la storia della Fenice. Che brucia e lentamente viene fuori dalle sue stesse ceneri. Così è stato per questa squadra. Protagonista di una meravigliosa fiaba, raccontata ormai da novant’anni. A cui non scriveranno tanto presto il lieto fine, ma solo perché, a ripensarci, è bella l’espressione “e vissero tutti felici e contenti”, ma volete mettere la gioia di “‘na finta ‘e Maradona squaglia ‘o sanghe dint ‘e vene? ”.

 

 

 

Gennaro Arpaia

Iscritto alla facolta di Giurisprudenza della Federico II Napoli. Giornalista pubblicista iscritto all'albo da giugno 2013.

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Gennaro Arpaia

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