di Paquito Catanzaro (Twitter: @Pizzaballa81)
«Mi chiamo Ezequiel Lavezzi e sono l’uomo più veloce del mondo».
Mi piacerebbe cominciare così questo racconto in prima persona, ma il rischio di plagio è nell’aria e non è il caso di mettersi contro a un supereroe col dono della velocità.
Mi chiamo Ezequiel Lavezzi e sono un attaccante. Pure qui storcerete il naso, vedendomi così basso e col filo di pancia, tipico di chi ama l’asado e il buon vino. Tuttavia mettetemi alla prova. Che qualcuno lanci la palla dalla metà campo e facciamo a chi arriva primo. In quell’istante, mentre starete deridendomi, avrò cominciato a correre, agganciato il pallone, guardato negli occhi il portiere e l’avrò trafitto con un diagonale basso.
No, non è talento per la premonizione, è solo il racconto di un Cagliari – Napoli di qualche anno fa. Una partita destinata a finire 0-0 con noi senza ossigeno e quei maledetti avversari che continuavano ad attaccare.
Mister Mazzarri fa segno all’arbitro che il recupero è finito da un pezzo. «Fischia bischero, fischia» il suo labiale era chiaro e altrettanto chiara era la voglia dei cagliaritani di segnare un attimo prima del fischio. Peccato per loro che un rilancio faccia arrivare il pallone lì dove non c’è nessuno, o almeno così credono compagni e avversari. Parto da fermo, sicuro che i muscoli non mi tradiranno. Non adesso che vedo il pallone rimbalzare e nessun avversario pronto a fermarmi. Lo aggancio e comincio a filare come il vento. Non quello d’estate che ispira canzoni e sorrisi; quello d’inverno, che sbatte le ante e sibila contro le finestre.
Di Cavani non vedo che la sagoma indistinta mentre continuo a fissare la porta avversaria e qualcuno, dalla tribuna, urla all’arbitro «Non fischiare, aspetta. Non fischiare». Corro, e non sento la terra sotto i piedi. Ne avverto la vibrazione costante. Sono una scheggia impazzita che, in un attimo di lucida follia, spinge la palla lì dove Michael Agazzi, non può arrivare. La faccia da bravo ragazzo del portiere avversario assume un’espressione cupa. Il mio volto si piega in un’espressione di orgastica soddisfazione.
Di certo non è quella la vittoria che racconterò ai nipotini un giorno. Mille altre sono state le gioie napoletane in quei cinque anni in cui ho vissuto nella terra del dio pallone.
Cinque anni, dopo i quali, ho sentito l’esigenza di andare via. Qualcuno comincerà a parlare di soldi, di calciatori mercenari, di gente ingrata che pensa solo ai soldi. Io vi assicuro che non è così, ma come tutti i bravi narratori, tengo per me certe ragioni del cuore, affidandole a lettere che un giorno scriverò per davvero.
Per ora, mi limito a prendere in prestito la penna di un ignoto scrittore e concludere questa mia biografia breve con una frase a effetto: «Mi chiamo Ezequiel Lavezzi, ma voi chiamatemi el Pocho».
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