PAQUIPEDIA – Pepe Reina, lo straniero che a Napoli pianse due volte

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a cura di Paquito Catanzaro (Twitter: @Pizzaballa81)

Sarà pure un luogo comune, ma quella storia del viaggiatore che a Napoli piange due volte è vera. Giuro. Appena arrivato, ormai tre anni fa, gli occhi erano lucidi. Un po’ perché dopo quasi dieci anni è tosta salutare Liverpool e mettere un punto, in basso a destra, in uno dei capitoli più importanti della mia storia; un po’ perché nessuno conosceva quella città se non attraverso le cronache dei giornali e quelle due partite di Europa League qualche anno prima.

L’uscita dal gate dei voli internazionali l’ho fatta comunque a testa alta. In fondo, Benitez mi aveva fortemente richiesto, avrei giocato un anno da titolare tanto in campionato quanto in Champions e a chi mi diceva “Reina farà da chioccia al giovane e promettente Rafael”, io rispondevo a denti stretti “Se questo ragazzino vuole emergere cominci a tirare fuori grinta e carisma. Altrimenti attenda il suo turno. Sulla panchina voglio sedermici al parco, non in campo”.

Il ritiro, i primi allenamenti. Le amichevoli in Inghilterra e quel clima freddo a cui mi ero abituato. E nei momenti di nostalgia, ripetevo a bassa voce “Su, quest’anno a Napoli passerà in fretta e se va male, avrò giocato in Champions e avrò fatto esperienza”.

Poi succede qualcosa. Non in campo, dentro di me. Quel dialetto napoletano, all’inizio incomprensibile, sembra camminare sulle linee di un pentagramma. È musica, autentica, antica. Se chiudo gli occhi e mi concentro, sorrido e comprendo fino all’ultima sillaba. E se rido lo faccio perché sto comprendendo una battuta e non perché sono il classico turista con la risata stampata in volto per non offendere nessuno.

Posillipo, Mergellina, le serate sul lungomare con mia moglie che mi ripete “Sai Pepe, a Napoli si sta bene anche a dicembre. Che ne diresti se rimanessimo qui un altro anno?”.

Come va avanti questa storia che sembra un film, invece è la mia vita, lo sapete tutti. Napoli mi entra nel cuore. Tra alti e bassi si arriva al terzo posto e quella maglia numero 25 la porto con lo stesso orgoglio con cui ho indossato tutte le altre divise. Stavolta, però, c’è qualcosa di diverso. Un sentimento nuovo che mi scorre dentro. Che mi porta, in lacrime, verso un altro lido.

Si piange davvero quando ci si lascia alle spalle il Vesuvio, lo stadio San Paolo, quelle vedute che ti mozzano il fiato e perfetti sconosciuti che sembrano far parte della mia vita fin dal primo vagito.
Su una pagina bianca, comincio a scrivere un nuovo capitolo della mia vita. Fatto di una nuova parlata, nuove ambizioni professionali. Una Monaco di Baviera in cui sono il secondo portiere più affidabile che si potesse trovare. Mi sembra di invecchiare, sedendomi ogni domenica su quello sgabello imbottito e riscaldato che ti tiene comodo per i 90 minuti della gara, ma non ti lascia nulla dentro. Anzi, ti acuisce un vuoto che sai già come colmare.

E allora va da sé che squilli il telefonino del mio procuratore e, in poche parole, gli spiego le mie intenzioni. “Non mi interessa la Champions, non mi interessano i quattrini. Voglio Napoli. Qualsiasi altra destinazione non la considerare nemmeno”. Ritorno qui e piango.
“Una scena già vista” obietterà qualcuno. Forse è così, ma in fondo questa è vita vera, e non un film.

 

 

 

 

 

 

 

 

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