di AntonioPapa (Twitter: @antoniopapapapa)
Dicono che l’attesa stuzzichi l’appetito. Beh, se è così è comprensibile ciò che è accaduto a Napoli esattamente ventisei anni fa. Era il 10 maggio del 1987, giorno culmine di un’attesa durata nove mesi, a sua volta zenit di un’estenuante anticamera di ben 51 anni. Già, perché il Napoli è nato nel 1926, e mai prima d’allora si erano raggiunte vette così alte. Ci volle Ferlaino, ci volle Ottavio Bianchi, ci volle un gruppo di ragazzi che magari a volte non sono considerati campioni solo perché a guidarli e ad oscurarli c’era il numero uno dei numeri uno. Diego Armando Maradona, uno che non a caso a Napoli è considerato alla stregua di una divinità. Diego prese quella squadra che veniva da qualche stagione un po’ tribolata e iniziò a mirare il bersaglio, fino a colpirlo dopo tre anni di tentativi. Dall’84, anno del suo arrivo in azzurro, il Pibe de Oro costruì insieme ai compagni un’ascesa irresistibile alla piramide del calcio italiano. Una progressione inarrestabile che si concluse in quel giorno di primavera. Napoli-Fiorentina, un pareggio che bastò per far esplodere di gioia una città che aspettava questo momento da una vita. La partita in sé è importante solo per gli almanacchi, da quel momento ciò che contava era soltanto esprimere tutti insieme una gioia indescrivibile, sopita per troppo tempo.
Urla, strepiti, fuochi artificiali, canti e balli che neanche al carnevale di Rio. Tutta Napoli scese in strada a celebrare quel momento di delirio. Uomini, donne, vecchi e bambini: per tutti fu festa grande, anche per chi non seguiva il calcio. Per molti lo scudetto rappresentò una rivincita contro i pregiudizi, contro i soprusi, contro gli sfottò di chi aveva scelto di tifare per la squadra che vince anziché per la squadra del cuore. E’ troppo facile così: scegli la formazione più forte e la segui tiepidamente, aspettando un trionfo che arriverà, se non quest’anno l’anno prossimo. A Napoli la vittoria fu qualcosa di più, riscatto politico e sociale contro chi crede di dover vincere per noblesse oblige. La consapevolezza di vivere la storia, di essere la seconda casa del calciatore più forte di ogni epoca, la determinazione nel voler scolpire nella pietra di uno sconfinato albo d’oro il proprio nome. Infine – perché no – la sensazione di aver dato un bel dispiacere agli amici più spocchiosi e fighetti. Guardate un po’ cosa accadde a Napoli quel giorno: capirete perché questa città è così speciale, nonostante tutte le contraddizioni, nonostante tante cose siano da rifare e tantissime ormai da buttare. Capirete che un napoletano può essere arrabbiato con la sua città ma non potrà mai disprezzarla. Capirete che un napoletano è l’essere più imperfetto di questo mondo, ma come sa amare lui non sa amare nessuno. Ecco, è proprio questa la differenza fra il 10 maggio 1987 e un 5 maggio come tanti: ovunque uno scudetto dura un anno, a Napoli dura per sempre. Buona visione.
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