«Mi hanno sempre chiesto perchè sono andato dall’altra parte rispetto alla palla. Non lo so, ma certo se avessi parato quel rigore quel giorno non sarei uscito dall’Olimpico» Trentini – Portiere del Foggia
Giorgio Chinaglia sul dischetto, rigore non certo eccelso ma efficace.
Ultima di campionato in quel 1974 che fece la storia della squadra capitolina biancoceleste.
La Lazio, ad appena due anni dall’arrivo nella massima serie, porta a casa il Tricolore.
Anno magico e costellato da eventi straordinari, in un contesto che di magico e straordinario aveva ben poco.
Una squadra, undici uomini in campo ma fazioni fuori.
Chinaglia, Wilson, Pulici, Oddi e Facco contro Martini, Re Cecconi, Frustalupi, Garlaschelli, Nanni.
Pronti a dar battaglia in ogni occasione, in veri e propri incontri da scene del Far West.
Perché le pistole le portavano davvero quando ci si doveva allenare.
Prima i bersagli e poi giochi assurdi a chi scappava prima.
Ma quella Lazio in campo dimenticava l’astio e le incomprensioni e dava il tutto per tutto senza riserve.
In Italia, come in Europa, sapeva capovolgere il risultato, dando esempio di grandezza e di compattezza inverosimili.
Ipswich Town, sedicesimi di finale e risultato che lascia la Lazio senza speranze.
4-0 per i padroni di casa e giochi ormai fatti senza diritto di replica.
Ma in campo all’Olimpico c’era la Lazio delle imprese impossibili. La Lazio delle corse e delle botte da orbi.
Al 26’ è sul 2-0, ci crede e morde alle caviglie, spacca qualche zigomo e mena come se fosse indemoniata.
Ma l’arbitro, che a detta dei presenti fosse sotto l’effetto dell’alcool, spegne le speranze.
Un rigore regalato, un finale arroventato ed un 4-2 che spegne i sogni.
Ma in campo accade di tutto; dagli spalti i tifosi impazziscono ed i giocatori attaccano il direttore di gara.
L’Uefa squalifica la Lazio dalle coppe Europee per un anno, impedendo alla squadra di Maestrelli di disputare la Coppa dei Campioni l’anno successivo.
Ma la rabbia ricompatta lo spogliatoio: archiviata l’Europa, si pensa al Campionato e si va a prendere lo scudetto.
Chinaglia, il grande Giorgio, bomber dell’impresa Laziale, leader indiscusso.
In allenamento o durante le amichevoli dettava legge ed imponeva il gioco.
Non si terminava la partita se non fosse arrivato almeno il pareggio.
E ne ha combinate tante durante gli anni della sua cavalcata e della sua storia.
Derby, Olimpico strapieno: dopo aver segnato, corsa sotto la Curva Sud a mostrare il terzo dito con aggiunta di commento, non certo da sportivo.
Muore di domenica, una domenica di aprile.
Una settimana prima di Lazio Napoli, quel Napoli che l’anno prima l’aveva visto segnare tre reti e consacrarlo come idolo della tifoseria laziale.
“Questo è il mio lavoro, mi diverto a farlo e per giunta mi pagano pure bene, quindi mi devo impegnare più di quanto fa ogni giorno un operaio o un contadino per portare la pagnotta a casa. Anche perché ho un debito di riconoscenza verso la Lazio e perché questa squadra mi è entrata nel cuore, questi colori mi sono entrati nel sangue”.
Eppure, quel debito con la sua amata Lazio, non l’ha mai pagato.
Abbandonata quando retrocedeva e mai veramente ricompensata.
Da dirigente a possibile presidente e poi l’allontanamento.
Ma resta, ancora oggi, nel cuore di chi l’ha vissuto ed apprezzato.
Di chi l’ha visto combattere in campo e lottare.
Anche quando, dopo una partita contro il Genoa, si è beccato sette punti di sutura ed è ritornato in campo.
I grandi numeri 9 lasciano sempre e comunque un segno.
Di Anna Ciccarelli