a cura di Paquito Catanzaro (Twitter: @Pizzaballa81)
La faccia è sempre la stessa. Il volto ben rasato, l’espressione sorridente tipica del bravo ragazzo che sembra prendersi gioco del tempo, avvicinandosi ai quarant’anni senza una ruga o un’imperfezione che, quanto meno, comunichi un minimo di maturità anagrafica.
La fronte, forse, è diventata più spaziosa. Ma in fondo basta pettinare bene i capelli e pure quello della calvizie diventa un problema secondario.
Uno così in televisione ci finisce senz’altro. Ad augurare buon giorno agli spettatori da Säo Paulo a Rio de Janeiro. Parla del campionato paulista, di quello carioca, ma guai a chiedere della sua esperienza in Italia.
Potrebbe offendersi, vedendosi costretto a tirar fuori dall’armadio più di uno scheletro. Potrebbe non ricordare quel che accadde vent’anni fa in un caldo giorno di giugno milanese.
Un fax spedito nell’altro continente, con il calce la firma di Massimo Moratti e a metà pagina una cifra, 7 miliardi di lire. Il prezzo con cui il petroliere tabagista acquista dal San Paolo il promettente Caio Ribeiro Decoussau. Nemmeno vent’anni e già 14 gol nel campionato d’esordio con quella maglia bianca che sembra certificare il candore di un ragazzino che ama il calcio e che ha davanti a sé un futuro da predestinato. Un biglietto aereo di sola andata e un bagaglio leggero. Il giovane attaccante con la faccia da bambino allaccia la cintura e si emoziona, già immaginandosi protagonista di un derby nel quale intende far impazzire prima Maldini e poi Baresi. Correrà, poi, sotto la curva per esultare dopo un gol che lo consacrerà capocannoniere della serie A.
La conferenza stampa è un susseguirsi di flash e domande alle quali risponde a voce bassa: pacato è il suo modo di fare. Un ragazzino che cammina lungo le strade della vita in punta di piedi, quasi temesse che far rumore possa essere un problema. Meglio preservare destro e sinistro per gli ultimi metri del campo da gioco. Quelli in cui colpirà il pallone con rabbia e potenza.
L’estate milanese scorre in fretta, tra ritiro e allenamenti ad Appiano Gentile in cui si distingue per il carattere mite, forse troppo per gli standard di una serie A in cui tocca ruggire per farsi sentire.
«Il ragazzo ha talento» dice Roy Hodgson, gentleman britannico che comunque storce il naso quando vede in campo quel ragazzino cui sembra mancare il mordente. Magari è un fatto di clima. Magari di ambientamento. Oppure è l’ennesimo assegno a vuoto staccato dal dottor Moratti, incantato dagli altri campioni con cui costituisce la sua rosa.
L’anno in nerazzurro diviene grigio, come il plumbeo cielo milanese che il ragazzino dal viso gentile osserva dalla panchina interista. Sei partite appena e la prospettiva di mandarlo altrove a fare un po’ d’esperienza.
Il posto giusto sembra essere Napoli, isola felice in cui mister Simoni fa da canuto Peter Pan. I suoi ragazzi sperduti sono un gruppo di calciatori provenienti da ogni dove per mettersi in luce in una squadra che ricorda appena i fasti degli anni ’80. Aglietti e Caccia sono i bomber con l’esperienza giusta per far maturare pure quel fanciullo brasiliano, reduce dall’annata storta in cui è meglio incappare a vent’anni che a trenta.
Napoli è la città più sudamericana d’Europa. Il clima, il calore del pubblico, i predecessori illustri che si chiamano Careca e Vinicio. Un incanto che Caio vive con occhi sognanti. Peccato che da quel sogno ad occhi aperti sembri non svegliarsi mai. Simoni gli preferisce l’esperienza di Nicola Caccia, non particolarmente sciolto di favella, ma pragmatico davanti al portiere, e il fisico di Alfredo Aglietti, uno che sembra il Frankenstein di Mary Shelley ma che la mette dentro col fare tipico dell’operaio d’attacco.
Al ragazzino con la parlata sudamericana non restano che scampoli di partita. Venti presenze in tutto, comprese quelle in cui si entra in campo solo per stringere la mano all’arbitro, e nemmeno un gol segnato.
Rifà la borsa in fretta e se ne torna a casa. Con buona pace di Moratti, Ferlaino e quei tifosi che non lo ricorderanno mai, se non nei pochi centimetri autoadesivi delle figurine dei calciatori. Pure lì col volto sbarbato e sorridente e i capelli ordinati con la spazzola.
Non è cambiato di una virgola mentre sorride di fronte alle telecamere di qualche talk show paulista. Guai a parlare dell’Italia, però. La tristeza, scritta con una zeta sola, è un sentimento che non s’accetta facilmente nella terra della samba e del carnevale che dura un anno intero.