a cura di Paquito Catanzaro (Twitter: @Pizzaballa81)
Se solo fosse nato nell’ottocento, Alexandre Dumas lo avrebbe ingaggiato come quinto moschettiere. E non per una questione fisica oppure di look, ma per quella capacità di “mettersi nei guai” che rese celebri i protagonisti dei suoi romanzi. Cavani Edinson Roberto sapeva che avrebbe avuto una vita avventurosa già dal primo vagito, in quel freddo giorno di San Valentino di ventotto anni fa. Succede, se la tua città natale si chiama Salto. No, non è licenza poetica, ma solo geografia che tenta di strappare una risata ai potenziali lettori.
Magro, scattante, con quei capelli a dar calore alle spalle e un padre che lo rincorre, mentre lui continua a combinare malefatte puerili che fanno sorridere, ma solo dopo che t’hanno fatto uscire dai gangheri. A tenerlo buono ci pensa il pallone. Amico fidato che Edinson rincorre e calcia prima col destro, poi col sinistro. Gli amici nel campetto fatto di asfalto e buche gli ripetono «Gioca in attacco che sei forte». E lui segna. Un gol dopo l’altro. E fa lo stesso quando sostituisce alle scarpe di pezza, quelle coi tacchetti e aggiunge i parastinchi, ma solo per non farsi male.
È il Danubio che ne scopre il talento calcistico. Debutto in serie A per quel ragazzo con l’apparecchio ai denti che sorride a tutti, ma solo lontano dal campo. Magari pure durante la partita, ma non prima d’aver spinto il pallone in rete. È questo il compito che gli è stato affidato, magari da uno scrittore fantasioso che, scrivendo su un taccuino il suo destino, gli suggerisce di accettare il trasferimento in quell’Italia del sud che tanto ricorda l’Uruguay.
Palermo è un’oasi felice. Che profuma di arance e pasta di mandorle. Che regala tramonti mozzafiato, ma non l’ambizione di puntare in alto. Ad Edinson servono terzini con la faccia truce che parlano dialetti stranieri. Servono portieri dal pedigree internazionale da superare con un destro a giro, oppure in rovesciata. E tutto questo è Napoli, proprio dove Dumas diede vita alle storie dei suoi moschettieri.
E probabilmente, solo i duelli con le spade sono mancati nella vita del Matador partenopeo. Uno capace di segnare centoquattro reti in tre stagioni, arrivando a scomodare Lui nei paragoni in fatto di reti segnate con la maglia azzurra. Uno che non si fa mancare gol da togliere il respiro e litigate col cartellino rosso a sedarne l’animo. Uno che tradisce la moglie e la molla sotto il cielo di Posillipo, giusto per non farsi mancare nulla in quel romanzo d’appendice che è la sua avventura napoletana.
Un romanzo che, fedele alla tradizione, apre un nuovo capitolo con un viaggio dell’eroe. Quello da Napoli a Parigi che ne segna il futuro calcistico e il destino come uomo. Accolto nel silenzio di un aeroporto troppo grande, diviene soldato al servizio di un monarca arabo senza passione per il calcio, ma col portafogli sempre traboccante di denaro da spendere per personal sollazzo. Intanto a Napoli arrivano altri idoli. Campioni altrettanto celebri con destini da scrivere per chissà quanto tempo sotto l’ombra del Vesuvio.
Eppure, tra un ripudio e un «È forte, sì, ma c’è di meglio», non lo dimentica nessuno. Proprio come un D’Artagnan, è destinato a diventare un classico, imperituro per i tifosi che ameranno sempre la maglia azzurra e chi la indossa.
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