PAQUIPEDIA – Stefan Schwoch, lo ‘straniero’ che pianse due volte nel segno di Careca

schwoch

 

di Paquito Catanzaro (Pizzaballa81)

Non state lì a preoccuparvi della pronuncia. È assai probabile che la sbaglierete; succede a tutti in fondo. Ma più che il mio nome, vorrei vi rimanesse in testa la mia storia. Quella di un ragazzo di Bolzano che finisce a giocare a calcio nel Napoli e che, come dicono nei film, piange due volte: quando arriva e quando parte.

Ed è successo pure a me, che lasciai Venezia e la sua laguna per quel golfo incantato che ha fatto da sfondo a leggende, film, libri e chissà quanti altri fattarielli. Quelli che ho imparato in fretta, girando per i vicoletti stretti, fermandomi a riprender fiato dopo aver guardato il golfo e vivendo un campo di calcio che, chi definisce un tempio, lo fa con convinzione e un pizzico di follia letteraria.

Eppure è così. Vieni fuori da quel sottopassaggio ed hai la sensazione di entrare in un altro mondo. Un universo grande appena per sessantamila anime che ti guardano dall’alto col solo desiderio di tornare a casa senza voce, cotti dal sole e con una vittoria di cui parlare per una settimana intera.

Come accadde in quel campionato ‘99/2000. Noi un passo avanti a tutti e le avversarie ad arrancare con la speranza pazza di fermare il Napoli. Squadra costruita per vincere e tornare in serie A, habitat naturale per chi ha avuto in rosa il dio del calcio e una pletora di piccoli grandi fuoriclasse con cui tenere viva una discussione sul passato calcistico di una squadra e di una città. Una città che continuava a sostenerci, che aveva dimenticato in fretta Ulivieri e le sue vecchie glorie con cui puntare a vincere il campionato, restando a guardare gli altri esultare.

Novellino teneva la faccia del paesano, quello che incontri tutti i giorni alla stessa ora nello stesso bar, col sorriso bonario e la grinta di chi vive sgomitando. E Walter scelse me come prima punta. Ragazzo col nome impronunciabile, ma col fiuto del gol. E 22 volte potei esultare a braccia aperte, lasciando che la mia chioma si liberasse nel vento e potessi ascoltare quello stesso boato che accoglieva i gol di Maradona, Careca e di chissà quanti altri fuoriclasse.

La promozione in serie A fu una formalità da espletare a fine anno solo per motivi di regolamento; intanto noi già guardavamo alle sfide con la Juve, il Milan e alle ambizioni di tornare in Europa tipiche di chi ha scritto la storia del calcio.

Qualcuno obietterà che, dopo quella stagione meravigliosa, Napoli diventò per me un ricordo da raccontare ai figli. Che ho continuato a girare l’Italia diventando un bomber bravo solo per la serie B e che forse per questo Corbelli mi ha venduto.

Forse, o forse il destino di un calciatore è quello di avere una valigia sotto il letto e il desiderio di far gol a scuotergli le notti insonni. Un po’ quel che succede a me, ragazzo venuto da Bolzano che andando via da Napoli ha pianto a dirotto. Non per la serie A mancata, ma per quella città che ti entra nel DNA e ti lascia segni indelebili dentro. Io che, semplicemente, mi chiamo Stefan Schwoch.

 

 

 

 

 

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