Unai Emery Etxegoien, lo scienziato pazzo in giacca e cravatta

 

Credere nell’eccellenza come abitudine“, lo ha scritto Unai Emery nel suo libro, nonché personale Vangelo, Mentalidad Ganadora. In effetti a primo acchito il piglio del filosofo lo si potrebbe scorgere da alcuni dettagli: gli occhiali da vista, un block notes sempre a portata di mano e la proverbiale abitudine di calcare il campo verde prima dell’inizio del match per ‘sentirne l’odore’ (ancora una citazione sua). Emery non è stato un giocatore impeccabile: non ha riposto la casacca fino ai 34 anni più per caparbia che per talento. Tuttavia, da quando veste i panni d’allenatore, la storia sembra essere cambiata. Effettivamente egli stesso si è definito Cavaliere del Santo Graal per la capacità di riuscire anche laddove qualcuno sarebbe costretto a fermarsi. Sulle sue tracce vi sono diversi club, ma il più insistente nel pressing è proprio il Napoli. De Laurentiis in persona è volato a Siviglia per convincere Il vigile a sedere il prossimo anno sulla panchina azzurra. Accordo triennale per un totale di circa 10 mln di euro. Unai Emery ci pensa e, nel frattempo, anche noi: è lui l’uomo giusto?

BIOGRAFIA – Il giovane tecnico spagnolo nasce nel ’71 ad Hondarribia e, nel corso della sua carriera da calciatore, bazzica nei club di minore divisione spagnola quali Real Sociedad, Toledo, Racing Ferrol, Leganes e Lorca. Proprio nel club bianco-celeste ottiene la sua più grande chance. Nel 2005, infatti, al termine della stagione la dirigenza del club lo convoca: deve appendere le scarpe al chiodo e guidare, da allenatore, la sua squadra alla salvezza. Cambiare pelle come i serpenti da un giorno all’altro fa effetto al tecnico, come lui stesso racconterà, ma non batte ciglio e rimette le cose a posto, rispondendo perfettamente alla richiesta del club. Lavoro, lavoro e lavoro: questo è il credo di Emery, quello che fin da subito ha dimostrato alla guida di un equipo de futbol. Nell’anno successivo rispetta il secondo dei suoi comandamenti: perdere solo quando non si può vincere, parafrasando: mai. Il suo Lorca diventa la rivelazione della categoria e lotta fino all’ultima giornata per un approdo storico in Primera Division. La missione è portata a termine, bisogna passare al livello successivo: per lo spagnolo, Almeria. Le due annate al club sono più che soddisfacenti e ciò comporta una successiva promozione che ne certifica l’assoluta supremazia in quanto a spirito di sacrificio: la firma col Valencia. Nei tre anni di permanenza alla guida dei Taronges aiuta la squadra a piazzarsi sistematicamente al terzo posto, alle spalle solo delle celestiali Barça e Real Madrid. Tecnicamente, quindi, il suo Valencia occupa la prima postazione tra i mortali, nonostante perda nel corso degli anni giocatori insostituibili quali David Silva, Juan Mata e David Villa. La parentesi termina nel 2012 con alcune critiche per il cammino europeo della squadra ed il momento del tecnico non migliora pur attraversando i confini della patria. Nello stesso anno, infatti, si trasferisce allo Spartak Mosca, club al quale non farà nemmeno in tempo a dare identità a causa del quasi immediato esonero. Ma a fidarsi di lui è nuovamente una squadra iberica, che lo riporta nel paese natale subito dopo: il Siviglia. Con i Palaganas porta in bacheca per due anni il trofeo di vincitore dell’Europa League. Una doppia soddisfazione che conferma il terzo mantra di Emery: un paio di piedi talentuosi che Madre Natura concede da sé non bastano, per arrivare primi bisogna esserlo soprattutto nella testa.

CREDO CALCISTICO – Chirurgico, ossessionato, appassionato, maniacale, stacanovista, a tratti irruente, eterno insoddisfatto: la lista di aggettivi che parla di Emery potrebbe proseguire ancora, ma in poche righe è questa la sintesi del suo calcio. Il tecnico spagnolo ama dialogare con i propri giocatori, lavorare sui meno talentuosi e sui giovani per farne emergere tutte le qualità nascoste. Emery fatica quotidianamente per imporre l’idea di gruppo, la cui capillare organizzazione vale più della giocata geniale del singolo. Come modulo calcistico opta per un 4-2-3-1. L’unica variabile non concessa è quella al sistema della difesa schierata a quattro, per il resto dei reparti invece l’autonomia ed il cambiamento sono maggiori, di fatti ha optato in diverse occasioni anche per un 4-3-3 e meno di rado per il 4-4-2. Nella sua squadra non esistono prime donne ed il turn-over è talmente scontato da non essere nemmeno menzionato più come novità. Il suo carattere molto autorevole lo ha portato spesso a scontarsi con la dirigenza, la stampa e gli addetti ai lavori, ma ha sempre rammendato gli strappi con lunghi discorsi ai diretti interessati. Uno psicologo in tuta, per i più. Motivatore eccellente, inoltre, riesce a creare sinergia ed intesa tra i reparti come pochi. Il suo calcio è qualitativamente molto espressivo: pressing costante sull’avversario, passaggi fulminei tra compagni di squadra, velocità sulle corsie esterne, ripristino delle posizioni dopo le falcate offensive. Pragmatismo, studio dell’avversario, inibizione del gioco altrui ma soprattutto unione: tutto ciò che all’ultimo Napoli sembra essere mancato. La strada per ritrovare un’identità potrebbe passare per Siviglia. Il tango del calciomercato ce lo renderà presto noto, nel frattempo non resta che ricominciare a studiare lo spagnolo. Per sicurezza, nulla più.

 

di Sabrina Uccello (Twitter: @SabriUccello)

 

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