di Paquito Catanzaro (Twitter: @Pizzaballa81)
Mi chiamo Taglialatela Giuseppe, ma voi chiamatemi Pino. Sì, come Pino Daniele, quel cantante che condivideva con me l’amore per la musica, il mare e per quella città che ti entra nel cuore e non la scordi più, pure se ti ci metti d’impegno.
Mi chiamo Taglialatela Giuseppe, nato a Ischia nel 1969. Un anno prima e nascevo rivoluzionario e magari in mezzo al campo facevo la mezz’ala, il trequartista oppure l’attaccante esterno, che porta a spasso i terzini e crossa la palla al centro per il centravanti che la spinge sempre in rete. Invece sono diventato portiere. Non so se c’entra l’anno di nascita, il segno zodiacale oppure la casualità. So solo che quella rete incastonata in mezzo ai pali d’acciaio mi sembrava un altare e io il nume tutelare che doveva difenderla. Ogni domenica, giorno del signore e dei signori che smettevano le giacche e le cravatte per correre allo stadio con le maniche arrotolate e i panini nella busta di plastica, ingannando l’attesa della partita. Aspettando Maradona, quel piccolo dio pallone che io ho visto solo da lontano quando, ancora ragazzino, ero il terzo portiere del primo scudetto. Io con la faccia da scugnizzo e gli occhi chiari del conquistatore.
Mi chiamo Taglialatela Giuseppe e, dopo qualche anno a guardare le partite a bordo campo, finalmente ho difeso la porta del Napoli. Quella città che ti resta dentro come il peggiore dei morbi, oppure il più fetente degli innamoramenti. E io di quella maglia azzurra mi sono innamorato, guardando avversari coi cognomi blasonati e quelli impronunciabili; lanciando il pallone in profondità a fenomeni in erba e a meteore con i capelli ribelli e la maglia numero 10 sulle spalle. Non basta questo per sentirsi campione. Non bastano i proclami d’inizio campionato a rendere felice un popolo che di pallone si nutre e soffre e si lamenta alla stessa maniera di chi sente tradito dall’uomo o dalla donna che ama.
Mi chiamo Taglialatela Giuseppe e nel 1999 ho detto addio a quella città che mi ammaliava ogni giorni coi suoi tramonti che ispirano poesie e le note di artisti che ascolto dallo stereo della macchina e mi metto a piangere per la malinconia. Firenze è bella, tiene arte, cultura e civiltà. Però manca qualcosa. Quel calore che ti scioglie le viscere pure quando è inverno pieno; che ti spinge a dare il massimo, che distende i muscoli quei pochi centimetri in più che servono per afferrare un pallone prima che finisca in fondo alla rete.
Quella che guardo adesso dall’alto di una tribuna numerata. Coi capelli brizzolati e gli occhi dello scugnizzo incantatore. Col mantra ripetuto sottovoce «Chi ama non dimentica». E io non me la scordo mai.
Io, Taglialatela Giuseppe. Ma voi chiamatemi Pino.
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