a cura di Paquito Catanzaro (Twitter: @pizzaballa81)
Il nome era quello giusto. Quello di un principe, di un nobiluomo d’altri tempi. Qualcuno, addirittura, scomodava il grande Shakespeare. E forse per me sarebbe stato meglio darmi alla scrittura, al teatro, perfino al ballo. Qualsiasi attività purché il campo da calcio non rimanesse che un luogo utopistico. Un’isola che non c’è dove mostrare il mio talento. Magari giocando in squadra con Peter Pan e i suoi bambini dispersi.
Ecco. Disperso è il termine giusto per raccontare la mia avventura calcistica italiana. Durata appena una stagione, la 1997/98 disputata in serie A con la maglia del Napoli. Quella azzurra che, per associazione immediata di idee, ti fa pensare subito a un principe. E io mi chiamo William, tipico nome da principe, o da nobiluomo. Oppure da attore di successo. Qualsiasi cosa, come qualche rigo fa, purché non facessi il calciatore. Ma io insistevo, volevo fortemente il campo. Correre dietro al pallone, fermare la corsa degli attaccanti e dare il via a un contropiede che senza alcun dubbio si sarebbe trasformato in rete. E il merito sarebbe stato pure mio. Quel difensore col nome importante (William, ve lo ricordo casomai lo aveste dimenticato) e la erre moscia con cui palesava, in ogni parola, la sua origine transalpina.
Come Napoleone avrei condotto la mia squadra alla vittoria, alzando ogni domenica una linea Maginot oltre la quale nessun attaccante, trequartista o semplice mediano avrebbe mai visto il sole tramontare, figuriamoci la porta avversaria. Al grido di “Allons enfants” avrei marchiato a fuoco la storia di una squadra assai gloriosa, divenendo l’erede di Blanc, Kroll e di chissà quale altro pugnace difensore.
Tutto questo avrei fatto io, William Prunier da Montreuil se quella maledetta domenica Abel Balbo, ormai cinquantenne attaccante della Roma, non avesse segnato una tripletta all’Olimpico in quella domenica in cui la linea Maginot sembrava la succursale di un sambodromo, coi miei colleghi ed io che danzavamo incantati dalle finte degli attaccanti giallorossi. Io che “statico e forte come una quercia” (citazione bucolica tratta da chissà quale italico quotidiano) finì in panchina da quella partita in poi, tra le risa dei tifosi e i rimpianti di Ferlaino che, osservando le mie gesta in VHS, pensò “La prossima volta mi guardo un film porno”. Eppure ero destinato a grandi cose, traguardi irraggiungibili per i comuni mortali e per i calciatori nati senza il mio blasone. Io, William, che con quel nome avrei potuto fare tutto. Meglio se sprovvisto di pallone.