A cura di Paquito Catanzaro (Twitter: @pizzaballa83)
Eppure, per un attimo, allo scudetto ci hanno pensato. Anticipare la storia di qualche stagione, coprirsi con quel tricolore quattro anni prima dell’avvento del messia. In fondo, la fascia da capitano stava bene pure a lui e pure lui teneva una folta chioma scura e il carattere del leader.
Certo, uno parlava spagnolo e l’altro olandese, uno era piccolo e inafferrabile e l’altro arcigno come una colonna di granito, eppure nessuno avrebbe storto il naso se un libero avesse guidato la squadra alla vittoria dello scudetto.
Il destino, però, ha pensato bene di calare l’asso qualche campionato più tardi, eppure di quei primi anni ’80 si ricorda un Napoli ambizioso guidato da quel ragazzo olandese, recuperato in Canada, per dare alla squadra quel tocco d’esperienza che serviva per puntare al primo posto. E così fece, Ruud Krol da Amsterdam, gigante dagli occhi color ghiaccio nato nel 1949 e approdato alla corte di Marchesi per volere di Antonio Juliano, convinto di aver trovato un leader per il suo Napoli.
In città ancora si sentiva l’eco del concetto di “calcio totale” e di “rivoluzione olandese” mentre Rudy sgambettava in campo e apprendeva la lingua italiana. Un idioma che non unisce i popoli, ma serve eccome per guidare i compagni di squadra verso traguardi fino ad allora solo sfiorati o citati nei sogni ad occhi aperti dei tifosi al bar.
Marchesi, italico nella parlata e nella concezione del pallone, gli disse chiaro e tondo «Ragazzo mio, tu giocherai da libero. Ma quando ti vien voglia, spingiti pure in attacco. Chissà che non la metta dentro pure tu». Allenatore dai modi gentili, Marchesi pensò per un istante di avere un calciatore così totale da scendere in campo con una qualsiasi maglia dal 2 all’11 e, ove necessario, piazzarsi in mezzo ai pali con i guantoni e il cappellino per non avere il sole negli occhi.
Qualunque fosse la zolla di campo da calcare, Krol fu per il Napoli delizia per gli occhi e per il cuore, un baronetto dei paesi bassi che posticipò di qualche anno il suo addio al calcio, non prima di aver aggiunto al proprio vocabolario almeno un paio di parole di napoletano ed aver fatto vivere ai tifosi azzurri l’ebbrezza di un piazzamento mai così vicino alla vetta.
Salutò la terra delle sirene dopo quattro anni, a causa di un ginocchio malandato, con l’unico rimpianto di non aver cucito sulla casacca azzurra quella toppa tricolore che l’avrebbe reso leggenda.
Si accontentò di entrare nel cuore di una città, al punto di diventare involontario protagonista di una campagna pubblicitaria progressista. Dalle colline dei Camaldoli fino all’ultimo civico di via Marina un manifesto si domandava «E se la mamma di Krol avesse abortito?».
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