Uscito nelle sale nel 1975, per poi essere riprodotto a iosa al cinema e in televisione, Lo squalo è forse uno dei film più rappresentativi della lunga carriera di Steven Spielberg. Con poca tecnologia grafica e molta dura e sporca meccanica, questa pellicola è stata in grado, grazie a un continuo stato d’ansia, a mutare l’immagine che il mondo, o quasi, ha degli squali.
Sfruttando al massimo le note semplici e geniali allo stesso tempo di John Williams, Spielberg crea un azzurro modo di paura, l’oceano, governato da un sovrano dispotico e famelico, un vero serial killer letale, in grado di divorare qualsiasi cosa, ma soprattutto, e qui si scende nel fantastico, selezionare le proprie vittime, andando a caccia di sangue, budella e vendetta.
Nonostante anni e anni di documentari (seguenti il film) abbiano tentato di cambiare lo stato delle cose, quella costante ansia nello sguardo di Roy Scheider e l’assenza di un’anima nei piccoli occhi neri del mostro marino, hanno fatto sì che l’immaginario popolare sostituisse la realtà, che vede gli squali come temibili predatori, che probabilmente mangerebbero qualsiasi altra putrida carcassa prima di pensare soltanto d’assaggiare un corpo umano, e che nella maggior parte dei casi ci addentano per errore, data la grande somiglianza tra uomini e foche (almeno quando si imbraccia una tavola da surf).
Ecco di cosa è capace l’ansia, se gestita magistralmente per 125 minuti. Figurarsi quali potrebbero essere gli effetti se uno stato del genere venisse prolungato per decenni, dall’analogico alla primavera del digitale. Basta gettare uno sguardo sulla nostra disturbata, nevrotica e squilibrata serie A, che da tempo immemore ormai si ciba di tensione, ansia e paura.
Senza voler credere a scambi di favori, di soldi e di orologi, Napoli-Juventus è stata l’esemplificazione dell’ansia calcistica che in Italia domina da anni. Doha ha lasciato dolorosi strascichi nell’ambiente bianconero, nonostante più volte la si sia chiamata “coppetta“, il San Paolo era totalmente azzurro e dolorosamente festante in ricordo di un simbolo cittadino quale Pino Daniele, la Juventus voleva ricacciare indietro la Roma ed evitare che la porta del campionato potesse riaprirsi del tutto, tornando a vincere e convincere dopo i tanti pareggi di fine 2014. Ecco con quale stato d’animo dev’essere scesa in campo la schiera di arbitri guidata da Tagliavento che ha diretto il big match di domenica 11 gennaio.
Senza voler scendere nei dettagli di una gara complessa e colma di episodi dubbi, fin dai primi minuti e da quell’ammonizione mancata al regista barbuto bianconero, è facile capire, volendo credere completamente alla buona fede, come ricordato da Benitez, come la mente di un arbitro prefiguri le mille conseguenze di un fischio prima ancora di dare il giusto segnale per fare in modo che dalla bocca fuoriesca il fiato necessario per fermare un’azione e fare la cosa più difficile che possa avvenire in rettangolo di gioco, prendere una decisione.
Tutto è legato a un gioco di potere che, allo stato attuale, non ha neanche bisogno di un sistema complesso come quello di calciopoli. Tutto si svolge tra media e Lega, dove viaggiano le polemiche, le sfuriate dei protagonisti e le decisioni del futuro dei malcapitati fischietti. Il caso che forse rappresenta uno dei più eclatanti della carriera di Tagliavento è il gol non dato a Muntari in un’ormai storico Milan-Juventus, che al tempo voleva dire lotta scudetto. Siamo al 26 febbraio del 2012, e quella gara termina 1-1. Incredibile la rabbia rossonera, al punto che ancora oggi lo scatto della sfera, respinta da Buffon molto dopo che abbia superato interamente la linea di porta, viene riproposto sul web e tirato in ballo nei pre e post gara. Una decisione difficile quella, ma non per la visuale o una questione di millimetri, semplicemente per il peso che avrebbe potuto avere quel gol assegnato. La moviola avrebbe dato ragione a Tagliavento, qualora avesse convalidato la rete, ma in diretta la sensazione è che il mondo possa crollarti addosso. Detto questo, il Milan ha fatto in modo che il fischietto di Terni non si facesse più rivedere dalle parti di San Siro, almeno il tempo necessario per digerire il torto subito. Così da quell’inizio del 2012, la prima apparizione di Tagliavento a Milano (sponda rossonera) risale al 31 agosto 2014.
Maggiori sono gli interessi economici delle big quotate in borsa, maggiore è, ovviamente, la tensione di un singolo uomo chiamato a prendere decisioni scomode. Così, secondo una visione non complottista (che dati i precedenti non è da reputare così folle), un arbitro italiano operante in serie A vivrà sempre la costante sensazione d’essere stato scaraventato nel bel mezzo di un banco di squali, e al termine dei 90′ minuti di gioco non potrà far altro che uscire dal campo con almeno un arto mancante.
Ora occhi puntati sull’Olimpico, dopo le grandi polemiche del San Paolo, perché il gioco degli arbitri non ha mai fine, e contro la Lazio, nel dubbio, si può solo immaginare cosa passerà nella mente del pover’uomo che avrà la sfortuna di ritrovarsi un fischietto appeso al collo.
di Luca Incoronato (Twitter: @_n3ssuno_)