Il secondo tempo di Napoli – Chievo è stato sicuramente il punto più basso di tutta la gestione Benítez fino ad ora: una squadra francamente inguardabile, senza capo né coda, incapace di stanare un avversario giusto un attimino organizzato e compatto.
È il difetto cronico azzurro, lo sappiamo; sin dai tempi di Mazzarri non riusciamo a proporre gioco quando i rivali si chiudono, si asserragliano massicci a protezione dei sedici metri e da lì non si schiodano. Ecco perché preferiamo le cosiddette “grandi”, quelle che ti concedono lo spazio per ripartire in contragolpe, dove i vari Mertens, Higuaín e Callejón vanno letteralmente a nozze.
Una enorme, immensa questione tecnica, dunque, merito di un centrocampo in cui mancano personaggi di sicuro affidamento, capaci sia dal punto di vista tecnico che da quello emotivo di prendere per mano i compagni quando le idee e la lucidità scarseggiano. Ma forse adesso comincia a incunearsi in un idillio scricchiolante qualcosa di diverso. Un malumore diffusso, sotto traccia, come la gelosia di Otello che si alimenta di se stessa e che a se stessa basta.
Ne sono prova provata i fischi del San Paolo a fine gara, quel “Meritiamo di più” berciato a squarciagola dalle tribune colme, come ormai colma è pure la misura di una tifoseria che non si accontenta più di parole belle, di proclami, di promesse. Il Napoli edizione 2014-2015 è una squadra involuta, debilitata, rimpicciolita da un mercato che a meno di colpi di scena clamorosi (leggasi improvvisa transustansiazione di Koulibaly, Jorginho e David López nei nuovi Terry, Lampard e Mascherano) possiamo definire già alla seconda assolutamente fallimentare.
“Ogni popolo ha il governo che si merita”, garantiva Aristotele. Anche se a volte sembra meno vero il contrario.
A cura di Domenico Ascione (Twitter: @vesuvilandia)