Hanno la pallacanestro collegiale e quella professionistica, hanno il football che porta il loro nome, hanno il baseball e l’hockey su ghiaccio, insieme ai migliori golfisti.
Hanno gli hamburger, la cheesecake, i muffin e pure i pancakes. Hanno l’uomo sulla luna.
Ma non si accontentano, perché il prossimo obiettivo degli Stati Uniti si chiama calcio.
O forse meglio ‘soccer‘, come lo chiamano da quelle parti.
La scoperta del nuovo millennio, per gli americani, è questo sport sconosciuto ai più fino a vent’anni fa, e che oggi raggiunge invece in Tv picchi di attenzione altissimi: i 21 milioni di telespettatori connessi per Belgio-USA sono solo l’ultima puntata di una passione che va in crescendo.
Numeri incredibili, se consideriamo che le ultime Finals NBA e World Series di Baseball, eventi che negli States sono secondi solo all’inavvicinabile Super Bowl, hanno fatto registrare rispettivamente 15,5 e 14,9 milioni di telespettatori.
L’eliminazione, a testa altissima, ai quarti di finale del Mondiale in Brasile contro il Belgio è la prima vittoria per gli americani, il primo passo di un cammino che li porterà al vertice.
Tutto è iniziato esattamente vent’anni fa, quando gli Usa si trovarono a dover organizzare un Mondiale di calcio senza averlo mai conosciuto e amato troppo.
Nove città per un mese di emozioni.
Con l’approdo in America, per la prima volta le nozioni di ‘calcio’ e ‘spettacolo’ si fusero.
Mai nessuno era riuscito ad immaginare il calcio come ad una rappresentazione, messa su da attori che vanno in campo e danno vita ad un qualcosa di paragonabile ad un film al cinema, ad uno spettacolo a teatro.
La squadra non fa neanche male: eliminati al primo turno dopo aver superato il girone.
Ad estrometterli dalla competizione ci pensò il Brasile, poi campione ai danni dell’Italia di Sacchi, Baresi e Baggio.
Agli americani non bruciò tanto quell’eliminazione, quanto piuttosto quella di quattro anni più tardi, quando ai Mondiali francesi dovettero tornare in casa dopo l’ultimo posto nel girone con un bottino che recitava quota 0 punti.
Fu quella l’eliminazione a smuovere qualcosa in loro: un americano, una rappresentativa nazionale americana, non può essere ultima e non protagonista, fosse anche l’ultimo sport della lista.
Nel 2002 escono ai quarti contro la Germania, poi finalista col Brasile; nel 2006 ancora eliminati ai gironi, dopo essere riusciti ad imporre il pari all’Italia, poi campione qualche partita più tardi.
In Sudafrica, quattro anni fa, la svolta: primi nel girone dinanzi ai cugini inglesi, quelli che il calcio l’hanno inventato, confezionato ed esportato nella parte meridionale del nuovo continente.
L’eliminazione in Brasile ha confermato il trend positivo: ai passi avanti sul campo si accompagnano quelli di un seguito di tifosi – con a capo il Presidente Obama, non l’ultimo della lista – che si fa via via più consistente, tutti pronti ad acclamare le gesta di Howard, Dempsey e compagnia.
Ora vogliono cambiare le regole, stravolgere asset e gerarchie.
Vogliono mettere gli Stati Uniti sulla mappa mondiale del pallone.
E ci riusciranno in neanche troppo tempo.
Hanno quantità – nei loro oltre 313 milioni di abitanti– e qualità.
Hanno strutture d’allenamento, e normative giuste per creare e formare ogni generazione.
Hanno risorse economiche e capacità di sfruttarle e investire. Il flusso che oggi porta Kakà, Villa e Henry ad abbracciare la MLS, migliorerà tutto il movimento in pochi anni, conformandolo a vero futuro del calcio.
Ma soprattutto hanno passione, ed attaccamento alla maglia.
“One nation, one team”, insomma. Come recita il loro motto.
Quella che in Italia, ma forse in tutta Europa, abbiamo un po’ dimenticato.
Quella che faremmo presto a ricordare, se non vogliamo regalare a loro, oltre al basket, gli hamburger e l’uomo sulla luna, anche il nostro amato calcio.
A cura di Gennaro Arpaia (Twitter @gennarojenius9)
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