Non è diventato il calciatore che avrebbe potuto essere. Aveva 19 anni durante le Universiadi del ’79. Il numero 10 della nazionale canadese (non ha mai ricordato il suo nome) gli ruppe il ginocchio destro e, da quel momento, nulla tornò ad essere come prima. La sua carriera iniziò così una parabola discendente: lasciò il Real Madrid e passò prima al Parla e poi al Linares. Il suo sogno di essere calciatore si infranse e non ebbe la possibilità di diventare come Franz Beckenbauer.
Una disavventura che fece spazio ad altre speranze, come quella di diventare allenatore, a cui aspirava sin da bambino quando frequentava il Collegio San Buenaventura de Aluche. Quando lo conobbi aveva appena compiuto trent’anni e già esercitava l’attività di allenatore anche se part time visto che la mattina lavorava presso la palestra Abasota de Madrid. Rafa continuava a ripetere, però, che la sua strada era il calcio. A quell’epoca fece una grande carriera come allenatore un certo Víctor Fernández che non aveva un passato come grande calciatore, e questo lo motivò ancora di più.
“Anche io posso farcela”, era il motto di Rafa Benitez che, inoltre, aveva come esempio suo padre. “Un uomo che cominciò come conserje (portiere) in un hotel a soli 11 anni e finì per diventare direttore commerciale di una catena alberghiera”. La sua ossessione non aveva cedimenti: era nato per vincere. Il suo cervello sembrava un campo di calcio in miniatura dove i giocatori, giorno dopo giorno, effettuavano movimenti sempre più perfetti. Utilizzava il computer in un’epoca in cui si frequentavano ancora corsi di dattilografia.
La mente di Benitez era già proiettata al futuro che desiderava. Ammirava Arrigo Sacchi; si autodefiniva “un fanatico dell’organizzazione” e, se glielo concedevi, poteva passare l’intero pomeriggio parlando di scacchi. “Perché il calcio è come una partita di scacchi”, diceva. “Bisogna pensare alle mosse in anticipo per fare in modo da avere un piano A, un piano B ed anche un piano C. Forse era semplicemente impaziente (almeno allora).Era un uomo che parlava molte lingue, che viaggiava da solo per il mondo, che si iscrisse varie volte all’università (Medicina, Economia, Scienze motorie) e che già allora aiutava Vicente Del Bosque, coordinatore delle giovanili del Real Madrid.
Usava anche un’altra frase (“Ho ed avrò sempre fiducia nel mio lavoro“) che forse utilizza anche oggi a Napoli, sotto gli occhi del Vesuvio, dove gli vogliono davvero molto bene. Un nuovo tassello da aggiungere ad una biografia come la sua che, a 53 anni, sembra raccontare più di una vita.
Ancora non ha coronato il sogno di allenare il Real Madrid come si era ripromesso quando aveva 30 anni (una vocazione invincibile), però gli ultimi 20 anni della sua vita sono caratterizzati dal grande successo. Un successo che ha rischiato di non arrivare mai perché i suoi inizi come allenatore a Valladolid, Osasuna e Extremadura, furono molto difficili e quasi controproducenti. Il suo compito non si esaurì quando arrivò al Valencia dopo aver ottenuto la promozione con il Tenerife. Prima di vincere la Liga al Mestalla dovette affrontare l’Espanyol in una partita che stava perdendo 2-0 e che finì per vincere 2 a 3. Quella notte fu uno scherzo del destino: era ad un passo dalla disfatta ma riuscì a risollevarsi e a vincere. Forse proprio per questo, in una recente intervista rilasciata a “La Repubblica”, Benitez ha definito il calcio come “una grande bugia” che, nonostante tutto, rappresenta la sua vita. Il Valencia gli spalancò le porte del Liverpool e di una cultura differente come quella inglese “in cui c’è l’abitudine di rispettare le scadenze” e che lo aiutò tantissimo. Lo trasformò in una leggenda, che può vantare più di 100 partite come allenatore in Champions.
E’ stato anche nominato migliore allenatore del mondo, una cosa che, senza dubbio, non gli piace e che gli riporta alla mente i momenti passati alla Ciudad Deportiva di Madrid, quando nessuno lo conosceva e guidava una Citroen ZX. “Chi è il migliore? E in che circostanza?” rispose quando gli fecero domande a riguardo. “Il migliore è colui che deve superare ostacoli ogni giorno cosciente che quello che farà non uscirà mai sul giornale, o colui che lo è perché gli hanno messo a disposizione una rosa di calciatori costata fior di milioni?”.
E’ difficile staccare la spina
In un solo uomo, convivono due tipi di allenatori: quello di ieri, che sognava di vedere pubblicata una sua intervista su un giornale, e quella di oggi, un uomo che mobilita le masse in una città appassionata come Napoli. Ha trascorso tre mesi intensi, che forse non dimenticherà mai nell’ hotel di Castel Volturno, dove per adesso risiede. Lì, continua ad essere colui che sempre è stato, l’uomo che non smette mai di documentarsi, “Se hai le conoscenze adatte, i giocatori lo apprezzano”; l’uomo che mai si è sentito un Dio, “ci sono partite che si possono recuperare con alcune mosse tattiche e altre per cui non si può fare nulla”, e soprattutto, l’uomo che sa che questa professione è più potente di lui , “Purtroppo è difficile staccare la spina, anche quando arrivi a casa e a pagarne le conseguenze è la famiglia. Però se ami questo mestiere, vivi per esso. A 53 anni compiuti, Benitez dichiara a “El Grafico”, Bibbia del giornalismo sportivo, che mai ha avuto il presagio di un suo fallimento. Nemmeno all’Inter dove è stato solo due mesi perchè dal primo giorno aveva divergenze con l’ambiente. “Solo al mio arrivo, mi accorsi di avere in rosa 15 giocatori che superavano i 30 anni”. Quindi, non c’era ragione di prevedere un fallimento nemmeno al Chelsea o quando i tifosi mi fischiavano a Stamford Bridge a pochi giorni dal mio arrivo al Liverpool.
Si sente ancora troppo giovane, Benitez, per perdere il buon umore. O almeno, quando non è arrabbiato potrebbe riuscire ad accettare la sconfitta “come parte del gioco, come una delle quattro opzioni che hai a disposizioni quando disputi una partita: puoi vincere, pareggiare, perdere o che te la sospendano per pioggia o neve”. Negli ultimi 20 anni i suoi discorsi si sono arricchiti di pazienza. Adesso, assicura che “se riesci a vincere senza modificare il tuo stile, o modificandolo il meno possibile, stai rasentando la perfezione”. Lo sa, perchè lo ha comprovato e forse, per questo motivo, la vita di Rafael Benitez Maudes, assomiglia a quella dell’allenatore che sognava di diventare negli anni novanta. Ha dovuto scommettere dunque. Ha avuto il coraggio di lasciare la sua Madrid nonostante avesse un contratto, solido e in vigore e una vita quasi da funzionario. Però era necessario. Doveva rincorrere i suoi sogni, incontrare il successo o la disfatta. Nel frattempo è stato anche nominato ‘Dottor honoris causa’, presso l’Università ‘Miguel Hernández di Elche’.
Fonte: mediapunta/rafabenitez.com
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