Oggi voglio raccontarvi una storia. Una storia che non oserei definire drammatica perché mancherei di rispetto ai veri drammi nella vita: al massimo azzarderei grottesca. Stadio San Paolo, un sabato sera invernale come tanti altri. Freddo quanto basta, umido e piovoso come ci si aspetta da una serata di fine gennaio. C’è chi lavora nei locali, chi lavora in strada e c’è anche chi, zaino in spalla e netbook nella fondina, lavora allo stadio. O meglio, dovrebbe farlo, se potesse. Il periodo ipotetico, mai come in questo caso, è d’obbligo. D’obbligo come l’ombrello quando piove.
Sogni per anni di poter accedere in un club esclusivo come la tribuna stampa, immaginando chissà quali privilegi per un élite che ha la fortuna di avere come lavoro l’analisi di una partita di calcio. Poi ci metti piede e scopri che tanto vale tornare a scrivere tabellino e cronaca per le partite di Eccellenza. Infrastrutture fatiscenti, probabilmente obsolete già quando una cricca di criminali le progettò, un quarto di secolo fa, allorché le imminenti Notti Magiche non furono altro che l’ennesimo pretesto per intascare qualche bel fondo internazionale. (Poi ci lamentiamo che ci preferiscono Polonia e Ucraina, ma vabbè). Figli e figliastri, ma neanche questa è una novità. Connessione internet intermittente e mai troppo affidabile, per non parlare della linea telefonica. Tutto sopportabile, finché non ti trovi nel bel mezzo di una bufera. Incredibile ma vero, nella tribuna stampa dello stadio San Paolo piove come se tra l’acqua e quei tavolini bianchi ci sia soltanto il cielo. La storia è questa: il temporale del secolo, un computer da salvare perché ti è costato tre mesi di lavoro. Una mano prova a tenere l’ombrello che copre il portatile e l’altra prova invano a battere due righe; un occhio controlla che non ci siano danni e l’altro continua a guardare la partita, perché il Napoli è il Napoli e, tra l’altro, alla fine il pezzo lo dovrai consegnare comunque, a dieci minuti dal novantesimo. Il finale del racconto è disarmante almeno quanto la storia stessa: il protagonista aspetta il duplice fischio a fine primo tempo, raccoglie l’armamentario e scappa via, trovando asilo nel vicino alloggio di un parente. Televisore e stufa, non sarà lo stadio ma almeno si può lavorare in santa pace. E al prossimo che si lamenta degli stadi vuoti…
Morale della favola: tanta acqua nei pantaloni e tanta rabbia nel cuore. La rabbia di vedere la propria professionalità svilita dall’incuria di chi se ne frega, di quelli che preferiscono scegliere la cravatta giusta piuttosto che curare il benessere degli ospiti. Le colpe sono di tutti, da chi dovrebbe occuparsi di una manutenzione che non c’è a chi organizza (male) la logistica di un appuntamento settimanale senza curarsi neppure dei dettagli più elementari. Compriamo campioni, battiamo avversari, alziamo trofei e poi ci ritroviamo a festeggiarli in una baracca cascante. E l’anno prossimo ospiteremo di nuovo gli inglesi, gli spagnoli, ma soprattutto i tedeschi. Speriamo vengano quando c’è il sole, il mare e il mandolino, altrimenti l’ennesima figura da terzo mondo non ce la toglie nessuno.
di Antonio Papa per Pianetanapoli.it
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