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Si ricomincia da dove avevamo finito, stesse proteste, stessi calci, stessa necessità di considerare l’avversario un nemico. La Juve ha passato l’estate a litigare con la Federazione, ora viene implicitamente accusata di riceverne i favori. Il Napoli compie una scorrettezza formale grave non presentandosi alla premiazione confermando che nel calcio hanno sempre ragione solo quelli che la pensano come noi. La scorrettezza rasenta poi la maleducazione se si pensa che tutti gli italiani ieri a Pechino erano ospiti dei cinesi ed erano stati pagati lautamente per recitare intera la loro parte, non scegliere da soli quando andarsene di scena. Decine di migliaia di spettatori pechinesi hanno assistito alla gara con indosso maglie bianconere e azzurre, una specie di immedesimazione profonda quasi incomprensibile e infatti alla fine non capita e rifiutata.
Non discuto il risultato, né le decisioni arbitrali. La partita è stata a tratti anche bella. Qualcosa di strano, di anomalo c’era, come
un’inconsuetudine spinta che abbassa le resistenze e porta tutto sopra le righe. Ma il troppo lo abbiamo messo noi col nostro calcio isterico dove non è prevista la possibilità di perdere. Se accade è colpa dell’arbitro, dell’erba, del destino, perché perdere da noi è un tabù inviolabile, un disonore. Così la partita è una lotta, il clima sempre quello di una guerra. Chissà cosa avranno pensato i milioni di cinesi che hanno visto la partita vedendo i nostri eroi schizzare sul campo rissosi e frenetici come pupi siciliani, straziati dalla paura che un arbitro decidesse per loro. Non è colpa di tutti, è vero, c’è stato anche nella Juve e nel Napoli, chi ha fatto semplicemente il suo, chi ha cercato di giocare. Ma spaventa quest’immagine impulsiva di un calcio sempre scontento, sempre polemico, che eternamente ritorna.
Questa fotocopia da italiani rissosi, sempre dediti a vincere, mai a costruire uno spettacolo. Poi ci meravigliamo se nel mondo
preferiscono vedere il calcio inglese e portano nella grande isola i mille milioni di diritti tv che quello spettacolo vale. Gli inglesi non sanno nemmeno cosa sia il senso di un arbitro, non ne conoscono i nomi. Sono esseri casuali che svolgono un compito non fondamentale, solo necessario perché esista il gioco. Mettiamo che siano loro troppo inglesi e che un po’ di malafede italiana a volte serva. Ma c’è un limite che anno dopo anno continuiamo a spostare. E che ci allontana dagli altri e dalle loro classifiche. Non si vince se non si sa accettare. A forza di pensarci tutti vittime di qualcosa, lo stiamo diventando davvero.
Fonte: Corriere della Sera
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